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Pd, la  solitudine è una cattiva compagnia

Che sofferenza vedere la politica ridotta ad un post di autocompiacimento del Presidente della Camera sull’autobus, o ai proclami rancorosi di chi avendo perso le elezioni e, magari, anche la bussola auspica per il Paese un governo trainato dalla peggiore destra sovranista e nazionalista.

In questi giorni così convulsi, a poche settimane dalle elezioni, la politica non discute dell’Italia e dei suoi problemi, ma di sé e del proprio futuro.

Le prime pagine dei giornali ci raccontano degli incontri di Salvini con Di Maio, delle loro telefonate, delle astuzie del primo e delle simulazioni del secondo, delle giravolte di Berlusconi e delle intemerate di Renzi contro i suoi compagni di partito, delle vanità e delle malizie di tutti e di ciascuno, in una contesa apocalittica di cui si è ormai smarrito persino il senso. Eppure i problemi imponenti che assillano il Paese sono noti e pesano come macigni sul suo futuro e su quello di tutti gli italiani: la disoccupazione, la bassa crescita, la precaria condizione di tanti giovani e di tante famiglie, l’enormità del debito pubblico, l’arretratezza del Sud, la corruzione, le inefficienze della pubblica amministrazione, l’elevata evasione fiscale, la criminalità organizzata, la percezione di paura e di insicurezza di fronte al tema dell’immigrazione, la bassa credibilità della politica e della sua classe dirigente.

Ma di questi problemi e delle misure sostenibili per mettere a punto le possibili soluzioni non si parla da nessuna parte. E il dibattito pubblico si accartoccia sugli stipendi dei commessi del Senato piuttosto che sui rimborsi taxi della terza carica dello Stato.

Il Pd è diviso e frastornato come non mai e appare sostanzialmente tagliato fuori. Questo può apparire comprensibile dopo la disfatta del 4 marzo. Ma la irrilevanza politica di quel che resta della sinistra non mi sembra una buona prospettiva, né per se stessa né per il Paese. Né mi appare auspicabile che il partito che ha governato per così tanto tempo l’Italia, nel bene e nel male, e che regge ancora il governo della maggior parte delle Regioni e dei Comuni, possa posizionarsi sulla linea dell’Aventino. Possiamo dire a cuor leggero “siccome non abbiamo vinto, adesso se la vedano loro”? Io penso che la fuga dal campo della battaglia non sia una linea, e che la rinuncia a fare politica non sia una politica. Con il 18,7% non ci si candida a trainare il prossimo governo, certo, ma si può essere lo stesso determinanti per sbloccare la situazione difficile determinata dall’esito elettorale. Si può concorrere ad individuare una via d’uscita dal blocco istituzionale che si profila all’orizzonte che, se trascinato troppo a lungo, potrebbe compromettere l’importante lavoro compiuto nella precedente legislatura per risollevare le condizioni dell’economia, dopo gli anni della peggiore crisi della storia repubblicana.

Non tocca al Pd esprimere una proposta per attrarre le altre forze politiche in vista di una nuova maggioranza di Governo stabile e duraturo. Ma il dialogo con le forze politiche meno lontane dalle proprie posizioni, per delineare le condizioni di una possibile continuità della legislatura, è un dovere costituzionale cui sarebbe difficile sottrarsi, anche solo per assicurare l’assunzione responsabile dei provvedimenti più urgenti in materia di politica fiscale, economica e sociale (scongiurare l’aumento dell’Iva, predisporre la legge di stabilità, affrontare le emergenze della condizione giovanile, consolidare il decollo delle misure di contrasto della povertà avviate dal Governo Gentiloni, introdurre le necessarie modifiche alla riforma del lavoro, riassestare la riforma delle Province, completare la fase della ricostruzione dei centri terremotati…), rivedere la legge elettorale e tornare al voto in tempi ragionevoli. Non penso ad un governo di larghe intese o a qualche cosa che gli somigli. Ma se fosse necessario avviare un confronto con il Movimento 5 Stelle per assicurare l’avvio di una comune assunzione di responsabilità, non ne farei un problema. Se il Pd di Letta ha potuto accordarsi con Berlusconi e quello di Renzi con Verdini e Alfano per così tanto tempo, facendo anche cose importanti per il Paese, non vedo dove sia lo scandalo di un dialogo leale e serrato con i grillini sui contenuti di una possibile azione di Governo sostenuta dai parlamentari della sinistra, nella più totale trasparenza delle responsabilità e delle capacità di ciascuno.

L’arroccamento all’opposizione non mi sembra una buona idea. Almeno occorrerebbe decidere all’opposizione di quale governo, ma siamo sicuri che questa soluzione sarebbe la migliore per l’Italia? La sinistra ha il dovere di riprendere il dialogo con quei milioni di elettori che hanno deciso di abbandonare il suo campo per scegliere i 5 stelle e questo può essere fatto prestando la dovuta attenzione alle ragioni di quell’abbandono e rispettando i contenuti di posizioni politiche che sono apparse più convincenti delle nostre per dare voce e rappresentanza ad un malessere sociale rimasto troppo a lungo senza risposta. Mi rendo conto che, a poche decine di giorni dalla più cocente sconfitta elettorale patita dalla sinistra italiana, questa posizione possa apparire inaccettabile, ma il recupero della umiltà e della capacità di ascolto di cui tanto si è parlato come terapia necessaria per tornare a vincere, se ci pensate bene, passa anche dal necessario superamento di quella supponenza che, negli anni più recenti ci ha fatto credere di essere sempre dalla parte giusta, persino a prescindere da ciò che gli italiani pensavano di noi. E questo è bene non capiti più.

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