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La vittoria del centro-sinistra nelle elezioni amministrative

Direttivo Cristiano Sociali Roma, 11 giugno 2013 – Relazione di Mimmo Lucà

Avviamo l’incontro di oggi, alla luce del risultato davvero straordinario delle elezioni amministrative, che segnala il grande successo delle liste di centro-sinistra in tutti i capoluoghi di provincia in cui si e’ votato, a partire da Roma, dove Ignazio Marino ha vinto contro Alemanno, con un distacco enorme e nel contesto di un’importante affermazione della nostra coalizione. Il Pd e il centro-sinistra si confermano nella stragrande maggioranza dei Comuni in cui governavano e conquistano città importanti come Brescia, Treviso, Imperia, Avellino. Anche in Sicilia si preannuncia un risultato analogo, con la riconquista di un’amministrazione rilevante come Catania.

In generale, il centro-destra subisce una clamorosa sconfitta in tutto il territorio nazionale, con una buona parte del proprio elettorato che, o si e’ astenuto o ha deciso di cambiare coalizione. Ciò conferma la vera e propria crisi di identità e di leadership della coalizione guidata da Silvio Berlusconi, ridimensionata in particolare al Nord, a causa del tracollo della Lega proprio nelle sue principali roccaforti. Le liste del Movimento Cinque Stelle segnano ovunque percentuali largamente ridimensionate rispetto elle elezioni politiche di febbraio, pagando sensibilmente le scelte irragionevoli e inconcludenti di questi tre mesi in Parlamento.

La vittoria della nostra coalizione è netta, uniforme e senza equivoci. Una boccata di ossigeno. Un incoraggiamento e un segnale di fiducia, in particolare nei confronti del Pd, per una prospettiva di cambiamento da rilanciare e da ricostruire. Bisogna evitare il rischio, però, che essa diventi un alibi per non affrontare i problemi che sono seri e che sono tanti. Il primo dei quali è sicuramente il dato clamoroso dell’astensionismo.

Nei Comuni in cui si è svolto il ballottaggio (67), al primo turno ha votato il 59,76% degli elettori, 15 giorni dopo e’ tornato al voto appena il 48,51%. L’11,25% in meno. Per la prima volta nella storia repubblicana, il partito astensionista sfonda il muro del 50%! Tutti i partiti perdono voti in cifra assoluta. Anche quelli del centro-sinistra, ma in misura inferiore al centro-destra e, perciò, vincono, anche se in “retromarcia”. A Roma, ad esempio, Marino perde il 33% dei voti presi da Rutelli nel 2008, ma Alemanno ne perde il 48% e questo fa la differenza. Il centro-sinistra vince a causa di un maggiore radicamento sul territorio, un maggiore tasso di fedeltà dei suoi elettori, la presenza di candidati più credibili nelle sue liste, la delusione degli elettori del M5S.

In ogni caso, non c’è dubbio che un’astensione così alta segnala, ancora una volta, la dimensione preoccupante del distacco dei cittadini dai partiti, il grado di sfiducia in una politica sempre più spesso lontana dalla vita dei cittadini e dalle esigenze della comunità. L’antipolitica si traduce così in a-politica o non-politica. Il risentimento prende la via del rigetto e della indifferenza. La sfiducia diventa opinione diffusa e radicata.

Il voto, però, dice al Pd che non tutto è perduto, che possiamo riprenderci e guardare al futuro. Ma bisogna cambiare radicalmente registro, nell’azione di governo e nelle scelte parlamentari, nel rapporto e nel dialogo con la società, nella condotta dei gruppi dirigenti.

1. PD: UN BILANCIO INQUIETANTE

Un capolavoro all’incontrario.

A 5 anni dalla sua nascita il Pd, alle elezioni politiche di febbraio, ha subito una seria sconfitta. In autunno aveva la vittoria in mano e sosteneva la linea del “governo di cambiamento”; in primavera è al governo con la destra. Un vero capolavoro all’incontrario: nel massimo di difficoltà politica di Berlusconi e della destra, siamo riusciti a perdere in poche settimane qualche milione di voti e siamo arrivati primi ma dentro uno scenario che ha reso impossibile proprio la linea del cambiamento; questo è accaduto perché alle contestazioni verso la politica, alle paure e allo smarrimento prodotto dalla crisi, alla domanda di cambiamento cresciuta nel paese ha saputo parlare meglio Grillo di noi.

Le radici della sconfitta.

La sconfitta ha una radice ravvicinata: ci siamo troppo schiacciati sul governo Monti e sulle politiche di esasperata austerità che esso ha praticato per i vincoli posti dall’Unione Europea, ma anche per una certa impostazione ideologica dei “tecnici” chiamati a fare opera di supplenza ai politici. L’appoggio a quel governo, una volta scartate le elezioni anticipate, è diventato nei fatti una via obbligata. Noi, però, ci abbiamo messo troppa convinzione, pensando che questo ci avrebbe accreditato agli occhi degli italiani come forza responsabile e affidabile.

La radice più profonda, però, è un’altra: quell’atteggiamento era già il segnale allarmante di una incapacità del Pd di ascoltare, interpretare, rappresentare la situazione reale del paese, la durezza delle difficoltà che la crisi e la sua gestione avevano già prodotto nella società. Perfino Berlusconi è stato più pronto di noi a cogliere il vento e a passare ad una posizione critica che si è fatta rapidamente rifiuto a sostenere ulteriormente Monti e il suo governo. E forse si spiega così un certo recupero di consensi che ha reso il suo risultato elettorale meno grave di come si stava prospettando e il suo restare, nonostante i rovesci subiti, ancora in campo.

L’illusione delle primarie.

Quanto a noi, le primarie ci hanno illuso che tutto fosse piuttosto facile; che la forte mobilitazione che esse hanno registrato fosse l’anticamera di una vittoria elettorale della coalizione “Italia bene comune” abbastanza ampia da non temere la trappola del Porcellum. Non è stato, ahimè, così. E dovrebbero ricordarlo i fautori ad oltranza delle primarie. Quando si esagera nel proiettare sugli elettori la competizione interna, si finisce per alimentare una conflittualità esasperata e si rende confuso e poco leggibile il profilo del partito agli occhi dei cittadini.

Di fronte al dilagare della campagna contro i costi della politica e per un ricambio generazionale nei gruppi dirigenti, Bersani (anche per contrastare l’ascesa di Renzi e di Grillo) ha cercato di presentarsi come il solo garante della necessaria riforma della politica e del rinnovamento del personale politico del Pd. Finendo così con l’alimentare l’idea che la campagna violenta contro i presunti “oligarchi” del Pd avesse le sue buone ragioni.

Matteo Renzi: il partito non è una piazza d’armi.

Del resto le stesse modalità dell’ascesa di Matteo Renzi avrebbero dovuto suonare come un campanello d’allarme: penso ai molti consensi ricevuti quasi esclusivamente in nome della “rottamazione” di un intero gruppo dirigente e al tentativo, riuscito, di accreditarsi come l’unico che sarebbe stato in grado di togliere voti a Berlusconi e di sconfiggerlo. Renzi ha fortemente contribuito alla campagna di discredito del gruppo dirigente del Pd, senza quasi incontrare resistenza. Grillo ha fatto il resto.

Sia chiaro: l’urgenza di un ricambio ed anzi di un nuovo modo di formazione e di promozione del gruppo dirigente, noi dei CS la sosteniamo da tempo e, con le scelte di qualcuno di noi, che ha fatto un passo indietro, abbiamo dato anche un contributo tangibile… Il modo con cui si procede, però, in un partito e in una fase drammatica come l’attuale, non può essere quello della spallata populista.

Le responsabilità di Bersani.

Noi abbiamo lealmente sostenuto, fin dall’inizio, la segreteria Bersani. Dobbiamo però riconoscere che se per la deriva complessiva del Pd le responsabilità vanno cercate in una dimensione condivisa, lui ci ha però messo del suo, soprattutto nella preparazione e nello svolgimento della campagna elettorale: si è fieramente qualificato come l’unico candidato premier che non aveva messo il proprio nome nel simbolo, per contrastare la deriva personalistica e plebiscitaria introdotta dal berlusconismo e rivelatasi subito contagiosa. Poi, però, ha impostato la campagna con toni molto personalistici, badando più ad accreditarsi come leader affidabile e simpatico che per possibile Premier in grado di comunicare agli elettori un programma politico per risolvere i problemi degli italiani e una squadra autorevole e riconosciuta, capace di realizzare il cambiamento.

Alla fine ha circoscritto l’area delle responsabilità e della guida del partito ad un nucleo inaccessibile di collaboratori e di decisori, con il quale era spesso precluso il dialogo e il rapporto; infine, la difficoltà a scegliere e far comprendere la politica delle alleanze: di fronte a chi alimentava il confronto sul fatto se fosse più giusto mettersi in coalizione con Sel o invece con le forze di centro, ha cercato una posizione mediana che alla fine ha spinto Monti a farsi il suo partito e a candidarsi (ragione non ultima della nostra non vittoria elettorale e sconfitta politica).

Il Governo delle larghe intese.

Del Governo abbiamo discusso ampiamente nel precedente Direttivo. Si tratta di un Governo nato dal pessimo risultato elettorale e dal massimalismo irresponsabile del M5S. Una grande opportunità di cambiamento è andata perduta. Grillo ne porta le massime responsabilità.

Una condizione di straordinaria emergenza economico-sociale, l’impossibilità di tornare al voto con la stessa legge elettorale e l’urgenza di approvare in Parlamento alcune limitate riforme istituzionali, hanno portato alla costituzione di una maggioranza anomala e provvisoria, per assicurare la nascita di un Governo eccezionale, per una situazione eccezionale. Un Governo nato anche in seguito ad una discreta quantità di errori, fallimenti e tradimenti, che hanno scosso la credibilità del Pd e di una parte significativa dei suoi gruppi parlamentari. Dunque, una soluzione estrema, transitoria e di breve periodo. Adesso occorre spingere con forza, con l’azione parlamentare e la mobilitazione politica, verso l’approvazione concreta delle misure e dei provvedimenti annunciati, senza indugiare ulteriormente, forzando le resistenze e gli ostacoli che la destra continua a frapporre lungo la strada delle riforme necessarie.

Rispetto ai temi istituzionali, voglio segnalare il superamento del bicameralismo perfetto e la introduzione della sfiducia costruttiva, il rafforzamento dei poteri del Premier e la riduzione del numero dei parlamentari, la soppressione delle province e la revisione del Titolo V della Costituzione, la riforma elettorale, con la soppressione della legge attuale e l’approvazione di una nuova normativa volta ad assicurare la governabilità e la libera scelta dei candidati da parte degli elettori.

Sul piano economico-sociale, sono urgenti gli investimenti più volte evocati per il rilancio dell’economia, la ripresa della piena operatività dei Comuni sulle piccole opere e sulle infrastrutture locali, la riduzione della pressione fiscale sul lavoro e sulle pensioni più basse, gli incentivi per l’assunzione dei giovani, le misure di redistribuzione del lavoro e del reddito, il rifinanziamento del Fondo per le politiche sociali e per il contrasto delle povertà.

Poi, si torni al voto.

Sappiamo che la sinistra, in queste condizioni difficili e impreviste, deve affrontare una nuova duplice sfida:

a) trasformare lo stato di necessità da cui è nato il Governo di Enrico Letta, in una opportunità per conseguire obiettivi importanti sulle condizioni drammatiche del paese reale, in termini di lavoro, di moralizzazione della vita pubblica, di diritti civili e sociali;

b) riconnettere le sue idee, il suo progetto e la sua classe dirigente con la vita e le aspirazioni dei cittadini.

E’ chiaro, in ogni caso, che l’emergenza non potrà diventare un’alibi, come è già capitato con il Governo Monti, per giustificare politiche incompatibili con le reali esigenze delle persone e delle famiglie, per affermare il primato di politiche neo-liberiste, capaci di produrre solo ulteriore recessione e rigore a senso unico.

Cosa resta del progetto Pd?

Una cosa è certa: da questa fase esce davvero malconcio il progetto (sarei quasi tentato di dire “il sogno”) del partito unitario dei riformisti progressisti, del Pd come comunità politica aperta e plurale, abitata dalle differenze ma capace di unirsi attorno ad una nuova sintesi culturale e programmatica. Cosa resta, oggi, dell’idea-forza del partito nazionale a vocazione maggioritaria e di governo, in grado finalmente di affermare un bipolarismo temperato, una buona politica, una prospettiva di risanamento e di progresso per la nostra Italia?

Vecchie derive e antichi richiami.

Vedo riaffacciarsi in modo inquietante vecchie derive e antichi richiami della foresta: c’è chi lamenta che la gestione Bersani ha finito con l’affermare nel Pd un’egemonia inaccettabile degli ex Pci-Pds-Ds: “non vogliamo morire socialdemocratici”, dicono, e c’è chi, all’opposto, legge la situazione attuale come il grande ritorno dei democristiani di tutti i partiti: contano nel Pd, nel Pdl, in Scelta civica; e sono in maggioranza assoluta nel governo Letta/Alfano: “non vogliamo morire democristiani”, dicono quelli che fanno questa lettura.

C’è del vero nelle due posizioni. Possono anche essere lette, però, come una profezia che si autoinvera: in questi 5 anni la diffidente e strumentale difesa delle identità di provenienza, la deriva notabilare e correntizia che essa ha alimentato, hanno impedito che nascesse davvero un soggetto nuovo ed unitario. Un soggetto capace di proiettare il meglio delle diverse culture politiche in una sintesi in grado di far uscire la politica e la democrazia del nostro paese dalla crisi che da troppo tempo le devasta. E che quindi le ponesse all’altezza di dare risposte adeguate alla non meno grave crisi dell’economia e della società.

Il congresso: rifondazione, conta di basso profilo o lacerazione?

Non manca chi parla della necessità di una “rifondazione” del Pd e del suo progetto. Intanto, però, posizioni come quelle appena ricordate vengono assunte, in vista del congresso ormai alle porte, come un alibi: o per aggregare nuove correnti per aree più o meno omogenee o per far riemergere nostalgie e attrattive centriste. C’è insomma il rischio che il prossimo Congresso invece che su una vera rigenerazione, si giochi su una conta tra le vecchie appartenenze. Una conta che potrà sfociare in una scissione o al più in mediazioni di vecchio conio, precarie e incapaci del nuovo slancio che pure tutti invocano. Sarebbe un esito gravissimo: la sconfitta politica di oggi si tradurrebbe in un disastro per tutto il centrosinistra, con o senza trattino.

Alleanze: uscire dall’ambiguità.

Grillo e il suo movimento non hanno dimostrato solo la debolezza del Pd ma anche quella di Sel e dei vari frammenti che si collocano alla sua sinistra. Ha però misurato anche l’attuale inconsistenza di un’ipotesi centrista. Sulle alleanze è tempo di sciogliere il nodo che ha molto pesato sulle dinamiche negative nel partito. Se il progetto non è decollato è anche perché si sono confrontate, a viso più o meno aperto, almeno due posizioni: Pd come soggetto di centro-sinistra che cerca di allargare i consensi verso le aree moderate dell’elettorato e che nelle amministrative può anche allearsi, se proprio è necessario, con la sinistra radicale; Pd come soggetto di sinistra plurale che cerca anzitutto di riunificare le diverse componenti della sinistra e, se proprio è necessario, si allea anche con il centro democratico moderato. Questa ambiguità è stata finora l’alibi che ha impedito sia una nuova sintesi di cultura politica e di programma sia una reale apertura e attrattività del partito verso i nuovi apporti che sono necessari, soprattutto verso i giovani. Questa ambiguità va sciolta.

Bisogna distinguere in modo definitivo tra il Pd come soggetto politico che unisce i riformisti di sinistra e la politica delle alleanze che resta necessaria. Non basta autodefinirsi a vocazione maggioritaria per diventare maggioranza. E non è possibile tenere insieme un partito in cui si pensa di far convivere gli opposti. Quel che serve è un diverso modo di concepire il rapporto tra identità di sinistra e vocazione maggioritaria e di governo.

È tempo di convincersi che non ci sono scorciatoie per portare al governo le forze del cambiamento: in tempi politicamente sensati il Pd, da solo, non sarà in grado di vincere e governare. Ma nessuna alleanza sarà adeguata se non a partire dall’esigenza di dare al Pd il profilo di un partito della sinistra plurale e democratica. Nel frattempo, immaginare di superare questa verità travestendo la sinistra da centro e più in là, è una pura follia. Perché la riduzione della politica ad una caccia al consenso ad ogni costo è risultata alla fine, di fronte ai guasti e alle urgenze di innovazione causate dalla recessione mondiale, un boomerang anche per Berlusconi e per la sua destra. Ma dalla crisi del Pd non si esce neppure immaginando di unire a sinistra due debolezze. Magari facendosi prendere dalla tentazione di vincere le elezioni proprio grazie al Porcellum.

Una verità dirimente.

C’è una verità dirimente e da noi più volte ricordata: ad una forza democratica del cambiamento non basta vincere pur che sia le elezioni e “andare” al governo; quando si governa per cambiare si può farlo solo con il consenso consapevole o almeno con la non belligeranza della maggioranza reale (cioè non ottenuta con assurdi premi di maggioranza) del paese. E questo è tanto più vero oggi quando il cambiamento è un drammatico stato di necessità. È realistico dire che la sinistra potrà vincere e governare per il cambiamento solo con una legge elettorale con doppio turno di collegio. Ma la legge elettorale è solo una delle condizioni. Quel che serve, prima ancora, è: ridare credibilità e affidabilità alla politica di tutte le forze del centro-sinistra, riprendere un contatto reale con la società, i suoi problemi, le sue istanze di cambiamento, darsi un profilo programmatico adeguato alle sfide globali che la crisi di questi anni porta con sé.

E, per quanto ci riguarda, deve essere chiaro che la condizione irrinunciabile per confermare il nostro investimento nel partito dei democratici, e’ non solo l’agibilità non esclusiva e supponente della democrazia interna, ma la riconoscibilità piena ed evidente delle idee-forza del riformismo di matrice cristiano-sociale.

Sto parlando della centralità del lavoro e della persona del lavoro; lo stare dalla parte dei più deboli; il valore e il ruolo sociale della famiglia; la libertà religiosa; la solidarietà concepita in una visione personalistica e comunitaria; la valorizzazione dei corpi intermedi della società; la salvaguardia e il valore pubblico dei beni comuni; la sostenibilità sociale e ambientale dello sviluppo; la sussidiarietà; l’accoglienza e la cittadinanza degli stranieri; il riconoscimento di diritti e di responsabilità delle persone e il superamento delle discriminazioni fondate sull’orientamento sessuale; la non violenza; la ricerca continua della pace e dello sviluppo integrale dei popoli.

Assetto istituzionale: quali riforme e quando?

Siamo dentro il tema delle riforme istituzionali, tornato oggi, per l’ennesima volta, di grande attualità per i partiti colpiti da una crisi senza precedenti. I nodi da sciogliere, oggi, si concentrano su due punti: la legge elettorale e il presidenzialismo. Sembra esserci la tentazione di uno scambio tra doppio turno di collegio e semi-presidenzialismo alla francese. C’è da fare molta attenzione. Anzitutto perché l’Italia non è la Francia.

Noi siamo ancora lontani da una ordinaria democrazia dell’alternanza, basata su un reciproco riconoscimento e su una competizione non esasperata tra due poli. Qui la figura di un presidente- arbitro (e tanto più lo si è visto in questi decenni di crisi del sistema politico) è più che mai necessaria. E c’è da dubitare che a risolvere il problema sia sufficiente una legge sul conflitto di interessi e un ripensamento del ruolo della Corte Costituzionale. E va da sé che una figura super- partes non può essere eletta a suffragio diretto. Serve che sia espressione del Parlamento e a maggioranza comunque qualificata. Altra cosa è il cancellierato, l’elezione diretta del Presidente del consiglio (di fatto già introdotta con le ultime leggi elettorali). Resta però importante, per evitare uno svuotamento del ruolo delle Camere, che la legittimazione non sia sganciata dalla maggioranza emersa dalle elezioni. In caso contrario si svuoterebbe fortemente l’impianto parlamentare previsto dalla nostra Costituzione. È assai pericoloso, nel massimo storico di disaffezione e di critica verso la politica, la sua moralità e la sua efficacia per il bene comune e di convulsa affermazione di populismi di vario tipo, immaginare che una personalizzazione che cavalchi la linea “un solo uomo al comando vi darà quel che chiedete” possa risolvere il problema. Si invoca, anche nel Pd, l’idea del “Sindaco d’Italia”, ma i dati dell’affluenza alle recenti amministrative dicono che, quando la crisi morde seriamente, non basta l’elezione diretta a garantire la legittimazione popolare dei governi.

Quanto al “quando” le riforme si faranno, abbiamo imparato a non fidarci troppo delle solenni dichiarazioni di volontà anche quando, come nel caso di Letta, sono fatte in buona fede.

Da dove nascono le difficoltà del partito.

Non c’è dubbio che le difficoltà del Pd nascono anche dal fatto che in questi 5 anni è prevalsa la formula del partito aperto e leggero, tutto proiettato sulla scalata delle istituzioni, piuttosto che sul servizio delle istituzioni, e quindi, sempre più ridotto a strumento elettorale. È vero che il partito, Costituzione alla mano, serve a questo. Ma, nel testo dell’art. 49, è concepito come libera associazione di cittadini “per concorrere con metodo democratico alla politica nazionale”; è, dunque, uno strumento della sovranità popolare che si organizza come parte politica tra altre parti; non un comitato elettorale proprietà di notabili che hanno fatto della loro presenza nelle istituzioni un mestiere e una carriera. Questa fedeltà all’art. 49 è tanto più rilevante oggi: non solo perché i cittadini hanno perso fiducia nei partiti ma perché la società è, a sua volta, alle prese con forme di disarticolazione sociale e di regresso civile che si stanno sommando – con effetti dirompenti – alla disseminazione positiva di identità, bisogni, speranze, figlia di decenni di crescita del benessere economico e dell’accesso ai diritti di cittadinanza. Per questo è urgente riformare il Pd, senza attendere una nuova legislazione in materia che pure è auspicabile.

Ma qui, vi è la seconda sconfitta di Bersani (e della Mozione congressuale del 2009), che aveva vinto le primarie del Congresso con la scommessa sul partito, che è quasi rimasta lettera morta. La credibilità e la buona salute di un partito esprimono anche la qualità e l’efficacia della sua proposta politica. Così come l’onestà, la preparazione e l’affidabilità della sua classe dirigente indicano un buon livello delle relazioni e dei legami esistenti al suo interno. Il partito è una comunità, è un luogo in cui si promuovono e si discutono le idee, si elaborano i progetti e le proposte politiche, si ascoltano le istanze dei cittadini, si accoglie e si valorizza la voglia di partecipare, si decidono indirizzi e linee di comportamento, si fanno crescere capacità, responsabilità e passione al servizio del bene comune. Il nostro partito non è apparso sempre all’altezza di questo modello. Litigiosità, carrierismo, correntismo, scarsa preparazione dei gruppi dirigenti, hanno spesso caratterizzato la sua immagine e il suo profilo ordinario, allontanandolo dal rapporto con la vita quotidiana delle persone e delle comunità.

A febbraio, i voti li abbiamo persi tra i giovani e gli operai. Il segnale è stato esplicito. La crisi del Pd è il riflesso di fratture sociali, morali e culturali che sempre più si approfondiscono e che nessuno vuole affrontare. L’astensione, il non voto alla sinistra e il voto dato a Grillo, non esprimono solo la protesta, ma una vera e propria estraneità rispetto alle istituzioni democratiche, una crisi di fiducia verso la politica e i partiti. Una politica che ha ceduto sovranità, che si è spogliata di responsabilità, che cede il passo ai mercati, alle burocrazie e alle tecnocrazie, al potere finanziario e a quello mediatico, ai grandi gruppi editoriali e imprenditoriali, al primato della governabilità. Anche il nostro partito ha ceduto alle illusioni dei talk-show e alla bulimia televisiva e ha abbassato le antenne, ha indebolito i sensori del territorio, ha ridotto la sua capacità di ascolto.

Così è potuto capitare che, come ha detto Epifani, non abbiamo saputo intercettare la domanda di cambiamento, di giustizia e di solidarietà, che andava emergendo sotto i colpi della crisi, nella crescente disperazione dei giovani senza lavoro e senza futuro, nella silenziosa dismissione del sistema produttivo, che lasciava a casa centinaia di migliaia di lavoratori adulti, nella progressiva diaspora dei cittadini dalla democrazia e dalle sue istituzioni.

Il Governatore della Banca d’Italia ha recentemente posto un problema del quale è la politica che soprattutto deve farsi carico: il fatto, ciò, che l’Italia decade perché “non siamo stati capaci di rispondere agli straordinari cambiamenti geopolitici, tecnologici e demografici degli ultimi 25 anni.” A che serve la politica, se non è nella condizione di interpretare le grandi trasformazioni della società e di governarle, affrontando i problemi e cercando le soluzioni coerenti e sostenibili, in un dialogo diretto e costante con i cittadini? Di cosa discuteremo al Congresso? Di regole, di statuti, di candidature? Siamo già sulla buona strada. Gli specialisti di questi argomenti sono già all’opera. Io penso, invece, che il tema più urgente che noi dobbiamo affrontare è quello di capire cosa debba fare adesso il Pd, con quali idee dovrà ripresentarsi presto al cospetto degli italiani e degli elettori, e a quali domande intenda dare una risposta in tempi brevi.

Ha scritto bene Alfredo Reichlin in un recente articolo su L’Unità: il nodo più importante resta quello della “rappresentanza”, la qualità e il senso del rapporto del Pd con i processi sociali, la sua vocazione ad esprimere le forze vive della società e del cambiamento. Per questo abbiamo bisogno di un partito aperto e non di un recinto, un partito nel quale convivano e si confrontino tra loro esperienze e culture diverse. Non un semplice campo di gioco per contese politiche di basso profilo, un’area, come ha denunciato giustamente Bersani, dove ciascuno fa quello che gli pare, un condominio esposto alle beghe dell’amministrazione e della coabitazione litigiosa. Ma un luogo dove si elaborano un orizzonte e un progetto per il futuro, dove si possa praticare una nuova idea di democrazia e di partecipazione.

Ecco, allora, il senso della sfida che sta di fronte al prossimo Congresso: ridare credibilità al Pd, capacità di rappresentanza, passione per le idee, voglia di stare vicino alla gente. Diciamolo con franchezza: pochi hanno pensato al partito in questi anni. “Regole e distintivo”, mi verrebbe da dire parafrasando una celebre battuta da cinema d’autore. E’ mancata la cura, l’investimento sulle realtà locali, la formazione continua, l’alimentazione etica, l’apertura al pluralismo e alla vivacità della società, il confronto critico. Non sto parlando di un problema di manutenzione. Sto parlando di attenzione e responsabilità quotidiana per la dimensione associativa del partito, per le sue immense opportunità di mettersi al servizio dei territori, per la sua democrazia interna. Nel partito si è affermata la sovranità delle correnti. Se non ne hai una, non sei in grado di svolgere alcuna funzione. Certo, il Pd, come dice Epifani, è l’unico partito non personale, l’unica forza politica senza un proprietario. Questo è indubbio, ma è anche vero che rischiamo di essere un partito senza identità, o, forse, di averne troppe. Ricordate lo slogan di Bersani al Congresso? “Dare un senso a questa storia”, appunto. Il senso abbiamo fatto fatica a trovarlo e, forse, ci siamo persi pure la storia….

Come cambiare?

L’opinione pubblica è oggi acutamente attenta alla questione morale della politica, al problema dei costi e del finanziamento, alle forme dirette della democrazia cominciando da un uso esteso delle primarie.Minore attenzione, invece, c’è proprio su altre urgenze di riforma, non meno importanti per una rilancio dei partiti, della loro funzione e della loro credibilità. Riguardano il rapporto tra società e partiti. Qui le difficoltà attuali si potranno superare se si riequilibria il baricentro del partito tra società e istituzioni: la complessità sociale non può essere ricondotta a sintesi soltanto con le primarie che semplificano e personalizzano il consenso; un partito del cambiamento ha bisogno di stare in dialogo permanente sia con gli elettori come individui sia e soprattutto con i corpi intermedi (sindacati, associazioni, coordinamenti, movimenti…); tenendo presente che in questa fase essi appaiono sempre meno in grado di dare forma politica di bene comune ai bisogni e agli interessi che organizzano; ed anche per questo c’è bisogno di luoghi e procedure di dialogo permanente fondato sulla condivisione di assi programmatici. I Cristiano sociali si sono a più riprese occupati del tema, anche nei convegni di Assisi. E ora il documento di Barca, così come altri interventi, interviste e articoli di importanti esponenti del partito, si muovono nella direzione giusta.

2. IL CATTOLICESIMO SOCIALE TRA CHIUSURE E NUOVA SOCIALITÀ

Il declino dell’associazionismo economico e civile.

Il declino del ruolo politico del libero associazionismo economico e civile e del Sindacato, è uno dei fattori importanti della crisi politica e democratica che stiamo vivendo. Riguarda l’intera famiglia dei soggetti che hanno animato la democrazia del secolo scorso, a ridosso della società industriale, delle sue istituzioni economiche, politiche amministrative, dei suoi conflitti. Le trasformazioni sociali dell’ultimo quarto di secolo hanno visto sorgere un ventaglio di nuove soggettività associative dai caratteri molto diversi dalle precedenti: sono spesso esperienze di alta intensità etica e solidale ma incuranti della propria politicità. Entrano in rapporto con la politica e le istituzioni soltanto per negoziare condizioni e opportunità legate al loro specifico ambito di intervento. Sono soggetti che spesso diventano anche animatori dei movimenti sorti sulle questioni ambientali, sulla pace, sui beni comuni. Ma che si tengono lontani dai partiti. Votano spesso per forze politiche radicali e non pochi sono oggi nel Movimento 5 stelle.

È venuta così meno la funzione svolta in passato dal sindacato, anzitutto, ma poi dall’associazionismo di promozione sociale e di terzo settore: essi si preoccupavano di dare alle domande e agli interessi, anche parziali, una forma di risposta politica. Fino a spingersi ad inviare propri esponenti nelle istituzioni, attraverso i partiti, per dare a quegli interessi una rappresentanza politica diretta. Questa funzione, dalla fine degli anni ’80 in poi, è divenuta particolarmente preziosa proprio per agevolare una politicità civile compatibile con i percorsi della democrazia rappresentativa.

Alle radici della nostra esperienza.

Di questa funzione, del resto, noi CS siamo una espressione di un certo valore. La gran parte di noi, nei primi anni ’90, è approdata alla politica proprio per rappresentare valori, interessi, elaborazioni programmatiche di una parte rilevante di quella società civile organizzata: il cattolicesimo sociale. Ebbene oggi soffriamo anche noi per questo mutamento quasi genetico di quel campo di soggetti: la chiusura in una sorta di tecnicismo dei servizi alla persona, di advocacy, di specializzazione nei propri ambiti di presenza; un rapporto con partiti e istituzioni che spesso non va oltre il lobbismo su singoli obiettivi, che a volte rasenta lo scambio politico deteriore. Sia chiaro, il ruolo di servizio alla società che essi, nel loro complesso, svolgono è di grande rilievo. Ma nella crisi, prima politica ed ora anche generale che stiamo vivendo, questo non promuovere e spendere in modo consapevole la propria politicità, la propria vocazione per il bene comune è non solo grave per le stessa prospettiva della democrazia italiana, ma anche autolesionista.

I contraccolpi del protagonismo politico dei vescovi.

Va aggiunto che l’area del cattolicesimo sociale è stata condizionata, nella sua deriva, anche da quella stagione che ha visto la gerarchia ecclesiastica sospingere l’intero campo del sociale cattolico ad agire come lobby, sotto le insegne dei valori non negoziabili, dell’unità culturale attraverso uno specifico soggetto, dei vescovi che si proponevano di gestire direttamente il rapporto con le istituzioni e con la politica. Con il risultato di una svalutazione della presenza organizzata dei cittadini cattolici nella politica. È una stagione che ha visto invocare continuamente il bene comune, ma che di fatto ha praticato uno stare nella società e nella politica come parte che cerca di affermare la propria identità e i propri interessi. Ce lo siamo detto più volte negli ultimi anni: questa deriva ha indebolito l’intero panorama del cattolicesimo politico. E ha certamente indebolito i Cristiano sociali e i cattolici democratici.

Per i Cristiano sociali solo due possibili strade.

Noi siamo nati per proiettare nell’unità dei riformisti progressisti l’area più avanzata del cristianesimo sociale. Siamo stati la “testa di ponte” che ha osato correre il rischio di anticipare un impegno collettivo di cattolici nella sinistra democratica. Siamo dunque una delle radici che, attraverso l’Ulivo sono giunte fino alla fondazione del Partito Democratico. Certamente nel nostro percorso ci sono stati limiti ed anche qualche errore. Resta però un dato di fatto: la deriva di ripiegamento identitario e di servizio del sociale cattolico ci ha progressivamente tagliato l’erba sotto i piedi. Ci ha fatto mancare poco a poco la possibilità stessa di interpretare e tradurre in buona politica le istanze di riformismo avanzato, che pure sono tuttora presenti nel sociale cattolico, in molte buone pratiche, ma che preferiscono darsi forma politica tanto radicale quanto lontana dalla fatica e dalla responsabilità di tradurla in azione di cambiamento, anche attraverso i partiti e le istituzioni democratiche.

In questa situazione un’esperienza come i CS ha solo due strade da prendere:

1) o si dichiara estinta per evidente impossibilità di continuare a svolgere i suoi compiti originari; 2) oppure tenta di interpretare quel compito nelle nuove condizioni: operando, cioè, per contribuire a far esprimere una nuova politicità nel campo del sociale cattolico vecchio e nuovo. La ragion politica direbbe che giusta è solo la seconda strada. Ma è anche quella che esige nuove energie e nuovo slancio.

Il nostro Movimento e’ nato dalla scelta di tanti dirigenti e militanti del sindacato, dell’associazionismo di matrice cristiana, di personalità importanti del cattolicesimo sociale, di dare una rappresentanza politica, nello schieramento progressista, alle istanze riformiste di un’area importante della sinistra sociale. Oggi c’è bisogno di una nuova assunzione di responsabilità da parte di quelle forze, di un impegno più consapevole verso la politica, di una più convinta esposizione verso le responsabilità nelle istituzioni.

Diciamolo con franchezza: la sfida tentata dai vertici della Cisl e delle principali associazioni cattoliche a Todi, sotto l’egida della Conferenza episcopale, con la ostentata fondazione di Scelta Civica, insieme a Monti e Luca di Montezemolo, e’ fallita. L’obiettivo era quello di costruire una nuova offerta politica, un nuovo soggetto capace di superare la crisi della politica e chiamare alla responsabilità pubblica l’Italia del volontariato e del bene comune, dell’impegno civico, professionale e della solidarietà. E si è chiamato a raccolta, attorno alla famigerata Agenda-Monti e al centro dello schieramento politico, in chiave moderata, un potenziale vasto di valori, di idee e di organizzazioni che in una posizione di equidistanza tra Berlusconi e Bersani non potevano ritrovarsi. Per ragioni storiche, culturali e sociali. E, dunque, la gran parte della base diffusa di quelle organizzazioni non ha seguito il richiamo. Si è, tuttavia, compiuta una scelta di divisione e di frammentazione dello schieramento riformista e di centro-sinistra e abbiamo visto come è andata a finire. Adesso occorre riflettere, perché il rischio di compromettere seriamente il patrimonio di credibilità, di impegno sociale e di cultura politica, del riformismo cristiano è serio e reale. E un rischio che il Pd, erede legittimo dell’esperienza dell’Ulivo, non può certo permettersi. Ma, anche i Cristiano sociali debbono fare i conti con esso realisticamente. Non possono aspettare ancora. Altrimenti la risposta è già data: ed è quella indicata dalla prima strada.

3. QUESTIONE SOCIALE: ORA È VERA EMERGENZA

Il rischio di un’esplosione sociale.

Una cosa è certa: noi siamo nati per portare nella sinistra la specifica sensibilità e la concezione forte e innovativa della questione sociale proprie del cristianesimo sociale italiano. Di questa specificità, oggi, ci sarebbe più bisogno che mai. La questione sociale è una emergenza drammatica. Tassazione, riduzione del potere d’acquisto di salari e pensioni, carovita, si sommano ad una disoccupazione a due cifre, all’assurdità degli esodati e, soprattutto, alla follia di un giovane su due che non trova lavoro. Perfino gli imprenditori evocano ogni giorno il rischio di una sua vera esplosione. Impoverimento, precarietà, insicurezza. La sofferenza e l’ingiustizia sociale crescono ogni giorno. Molte persone rinunciano a curarsi, la sanità rischia il tracollo. Ma i dirigenti politici si occupano d’altro. In troppi, anche in aree del Pd, evocano il problema ma finiscono col considerarlo poco più che una variabile dell’unica, vera priorità: rilanciare la crescita.

Ma quale crescita?

Sì, è assolutamente vero: la crescita va rilanciata. Ma quale crescita? Un rilancio basato ancora su un’innovazione che comporta ulteriore flessibilità e riduzione dei costi del lavoro? Una tale crescita potrà forse far recuperare competitività sui mercati internazionali ma creerà nuova disoccupazione, nuova precarietà per chi un lavoro ce l’ha e ulteriore emarginazione per chi già oggi non può averne. E causerà ulteriore flessione della domanda interna. E tutto questo quando non solo non ci sono i soldi per una seria riforma degli ammortizzatori sociali, ma sono esauriti i fondi per quelli che ci sono. La cassa integrazione, speciale e in deroga, ha fin qui mascherato altra disoccupazione strisciante. Cosa accadrà ora? Più volte, anche in presenza di governi “amici” noi abbiamo contestato una logica dei due tempi dura a morire: prima la crescita poi la redistribuzione sociale. Purtroppo abbiamo sempre avuto ragione: quel secondo tempo non è mai arrivato. Ma neanche una vera crescita economica, come i fatti dimostrano. Redistribuzione del reddito e del lavoro e nuova crescita potranno darsi soltanto insieme e soltanto se sarà incentivata una crescita sostenibile perché crea lavoro, perché adempie alle proprie responsabilità sociali, perché salvaguardia i beni comuni e l’ambiente.

E il nostro riformismo solidale?

Se guardiamo alla drammaticità della questione sociale, dobbiamo constatare che i nostri compiti originari sarebbero più che mai attuali. E che noi, negli anni, abbiamo già sedimentato un’importante elaborazione di proposte programmatiche e di strategie per quello che abbiamo chiamato il riformismo solidale. Proposte e strategie che hanno anche innovato, di fronte al presentarsi di questioni inedite, la tradizione cristiano sociale. Quel nostro riformismo sarebbe, ancora oggi, una risorsa non trascurabile per una sinistra democratica degna di questo nome. Se così non è, la responsabilità non è certo solo nostra. Quel Pd, che rischia oggi di perdersi il suo senso, è stato spesso…“in tutt’altre faccende affaccendato”. E si deve pur dire che ad una certa svalutazione della questione sociale, proprio nel momento in cui l’ingiustizia e la sofferenza sociale stavano facendosi più acute e più aspre, ha contribuito anche la nostra Chiesa quando, sulla scia dell’esasperata agitazione dei temi eticamente sensibili”, ha fatto passare il messaggio che la questione sociale era ormai divenuta questione antropologica.

Sempre i problemi sociali hanno conseguenze gravi sullo sviluppo umano. Ma l’accento quasi ossessivo sulla difesa della vita dallo sviluppo delle biotecnologie e dall’individualismo relativista, ha contribuito a far sottovalutare i termini inediti della nuova questione sociale, i cui effetti distruttivi sulla vita sono senz’altro assai più diffusi ed evidenti: attraverso fame, malattie, impoverimento, emarginazione sociale, l’ingiustizia si traduce sempre in riduzione delle aspettative di vita e spesso anche in imbarbarimento dei rapporti sociali. E non solo nei paesi più poveri del Sud del mondo.

4. UN CONGRESSO DEL PD APERTO E PARTECIPATO

Ma di questi argomenti torneremo presto a discutere.

Adesso devo concludere e voglio farlo con qualche accenno al percorso congressuale, avviato in queste settimane dagli organismi del Pd, con le solite polemiche sui tempi e sulle regole per il suo svolgimento. Per tutto quello che ho detto fin qui, io penso che il Congresso sia per il nostro partito una grande occasione: per rigenerare la sua identità, ritrovare il senso della sua proposta per l’Italia, spiegare meglio la transitorietà della presenza nel governo delle larghe intese, rilanciare il dialogo con la società, rinnovare ancora i gruppi dirigenti. Stanno qui le ragioni per cui occorre accelerare i tempi e concludere il percorso entro l’anno. E stanno qui anche le ragioni per cui occorre un processo di discussione aperto, un confronto largo e di merito che parta dai territori e dai circoli, per investire gli iscritti, gli amministratori e gli elettori delle primarie, i cittadini impegnati nei mondi vitali della società: sindacato, volontariato, associazionismo, categorie economiche e professionali, gruppi giovanili, le realtà della comunicazione e della rete. Guai ad impantanarsi in una discussione sulle regole, che dia l’impressione di una chiusura su noi stessi e di un ritorno all’indietro rispetto al coinvolgimento attivo del nostro elettorato, o, peggio, di una svolta regolamentare progettata per contrastare l’ascesa e l’affermazione di questo o quell’esponente del partito. Le regole si decidono insieme e devono favorire il massimo di coesione del gruppo dirigente e la massima concentrazione sul dibattito e sul confronto delle idee e delle posizioni politiche. In questo senso abbiamo presentato un ordine del giorno alla Direzione del 4 giugno, insieme con alcuni amici come Damiano, Chiti, Casson, Corsini, Martini, Lai, Puppato, Tocci ed altri, che e’ stato positivamente accolto dalla relazione e dalla replica del Segretario, per ribadire l’esigenza di un congresso sui programmi e sulle idee. Ed anche per le medesime ragioni abbiamo avviato una comune iniziativa con alcune Associazioni, per avviare un confronto sul futuro del riformismo e sulla possibilità di rilanciare il progetto originario del Pd, sulla identità di una sinistra democratica, pluralista e popolare. Ci sarà un primo seminario comune il 21 giugno prossimo, organizzato, per ora, da 4 associazioni: Lavoro e Welfare, Cristiano Sociali, Laboratorio politico per la sinistra, politica e società, per avviare questo percorso e per ribadire che:

– il dibattito sui contenuti viene prima delle candidature alla carica di Segretario e della discussione sui leaders;

– occorre riaprire il cantiere della fase costituente;

– bisogna rilanciare il valore del pluralismo culturale, delle idee e delle responsabilità, a partire dalle mozioni congressuali e non dalle correnti precostituite. Io penso che non dobbiamo escludere la presentazione di un documento dei Cristiano sociali o magari di un testo elaborato con altri amici, con i quali potremmo trovare motivazioni e contenuti sufficienti e convincenti per un percorso comune.

Infine, credo sia necessario decidere, in questa occasione, di svolgere la nostra prossima Assemblea nazionale in una data immediatamente successiva al Congresso del partito, preceduta da un Seminario di studio sui temi della Questione sociale, oltre che da un incontro sulla figura e sull’operato di un nostro grande amico e maestro scomparso da poche settimane, Mons. Giovanni Nervo.

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