Dunque, rieccoci alle prese con gli ennesimi episodi di quella politica politicante malata di incontinenza dell’annuncio, che mentre dice una cosa ne fa una diversa.
È una politica che va affermandosi con il ricorso compulsivo alle nuove tecnologie della comunicazione, che si alimenta con l’uso forsennato delle “tastiere”, che ha bisogno di provocare polemiche, creare nemici, infangare reputazioni, delegittimare avversari, ipotizzare divisioni e mettere veti.
L’esatto contrario del dialogo democratico e del confronto civile.
Non è una patologia che riguarda soltanto la destra, è un’epidemia che ha contagiato anche settori importanti della sinistra.
È quella politica che mortifica la passione, l’impegno competente e cordiale e che, alla lunga, genera in molti indifferenza e ostilità. A questa politica le categorie della speranza, del coraggio e della passione non servono più, perché sono considerate inutili, vecchie, superate. Sono categorie “lente”, poiché si alimentano nel dibattito pubblico, vivono con la ricerca critica e hanno bisogno di visione, cultura, gioco di squadra, responsabilità. A questa politica, che è soprattutto comunicazione, la verità non interessa perché se ne crea una propria, interessa invece la velocità, la riconoscibilità, l’effetto “che fa”, l’audience. Bisogna stupire, sparigliare, polemizzare, annichilire, delegittimare, offendere. Contrastare una tesi non basta. Così come esprimere un punto di vista o avanzare una proposta. Non c’è efficacia. I media neppure ti vedono e il silenzio non da conto della tua presenza. Prevalgono la polemica, l’invettiva, il contrasto, l’insulto : l’urlo si prende tutta l’attenzione, il presente mangia il futuro e il passato perde la memoria.
Che fare? Il problema diventa il rapporto tra politica e realtà, tra ciò in cui si crede e quello che si fa, tra l’etica della convinzione, la responsabilità e il cinismo delle opportunità.
Bisogna contrastare questa deriva, reagire, opporre con coraggio una grammatica diversa, e ricostruire pazientemente l’idea di una politica che sappia di cultura, di futuro, di speranza, una politica che non ceda il suo spazio vitale allo spirito di potenza e che torni a frequentare il mondo e il linguaggio dei “piccoli”, della gente comune, della buona volontà, del lavoro, della dignità delle persone. Il linguaggio della mitezza, dell’amicizia, della cura per il creato e del rispetto per le prossime generazioni.
Una visione un po’ idilliaca? Può darsi, ma preferisco credere ancora nel mito della “terra promessa” e battermi per essa insieme con altri, piuttosto che arrendermi al deserto del cosiddetto realismo senza principi.
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