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Riflettere per scegliere il nostro futuro

mimmoluca

La mia relazione alla X^ Assemblea nazionale dei Cristiano sociali
Roma, 22 marzo 2014, Centro congressi Frentani

Un’urgenza che nasce dalla realtà 

Ancora una volta la nostra Assemblea non ha un carattere ordinario: siamo ancora chiamati ad una scelta decisiva per il nostro futuro. Ad imporcela sono difficoltà che non è più possibile sostenere. Tanto più nel tempo nuovo che si sta aprendo.

Dalla precedente Assemblea ad oggi le tre dimensioni costitutive del nostro impegno sono state in forte movimento: il nostro essere cristiani, interpellato dallo straordinario e inatteso pontificato di papa Francesco; il nostro essere radicati nella questione sociale, che ha visto la società italiana stravolta dalla grande recessione e piegata da livelli intollerabili di sofferenza e di ingiustizia sociale; il nostro essere democratici e progressisti, in uno scenario politico sempre più instabile e incerto, in cui ha fatto irruzione il ciclone Renzi…

È questo dunque un tempo che a tutti i democratici, e a maggior ragione a noi, chiede scelte coraggiose e forti assunzioni di responsabilità.

O ripensiamo il nostro impegno e riprendiamo slancio oppure sarà necessario prendere atto che il cammino dei Cristiano Sociali è giunto al suo compimento. A sciogliere questo nodo non siamo spinti da una vista corta, autoreferenziale, ma dalla nostra passione per il bene comune e per la buona politica.

Per favorire un dibattito libero e consapevole

Ci siamo convocati per riflettere e per decidere. I nostri lavori, dunque,  non saranno schiacciati sull’attualità politica; sono chiamati soprattutto a verificare se questa nostra esperienza può ancora essere in grado – e a quali condizioni – di dare un contributo significativo in questo tempo nuovo.

La relazione che vi sto presentando si concentra su tre obiettivi. Il primo è proporre  una valutazione sul senso e sui risultati dell’esperienza dei Cristiano sociali. Il secondo è tratteggiare quel che, fin dal tema di questa Assemblea, abbiamo voluto definire un tempo nuovo. E nel farlo ripercorrerò le tre dimensioni del nostro impegno: fede, questione sociale, politica.

Il terzo obiettivo è delineare le possibili vie d’uscita dalle nostre difficoltà. Dirò anche di un’ipotesi che stiamo verificando ma senza indicarla come soluzione predefinita su cui pronunciarvi. Ci è sembrato di favorire, così, la massima libertà di discussione e di decisione.

Su questa impostazione, non ve lo nascondo,hanno influito anche le mie incertezze personali, il peso di questi lunghi anni alla guida del Movimento, un cambio radicale di prospettiva al termine di un percorso politico e parlamentare intenso e coinvolgente…

Di una cosa siate sicuri: le difficoltà di cui soffriamo sono per me così dure da accettare perché ho molto chiaro quel che abbiamo alle spalle. So quello che siamo stati e ho piena consapevolezza del valore delle scelte che abbiamo compiuto; conosco la portata del nostro cammino, la passione che ci abbiamo messo, i prezzi che abbiamo pagato, i risultati che abbiamo conseguito…

 

II.  CRISTIANO SOCIALI: IL SENSO DEL NOSTRO CAMMINO

Nati per non disperdere il patrimonio del cattolicesimo sociale 

Perché la nostra discussione non sia falsata da un eccesso di depressione è bene fondarla su una condivisione consapevole: i Cristiano sociali hanno compiuto fin qui un cammino e svolto un ruolo di importante rilievo politico.

Parto dal ricordare la situazione di forte emergenza politica e democratica che spinse a costituire il Movimento. Eravamo all’inizio degli anni 90, nel pieno del processo di implosione della Democrazia cristiana e dell’intero sistema politico, per effetto della cosiddetta Tangentopoli e a seguito del crollo del muro di Berlino. È impressionante constatarlo, ma dalla crisi innescata allora non siamo ancora usciti.

I nostri fondatori percepirono che, con la dissoluzione della Dc, rischiava di disperdersi un patrimonio importante di cultura politica e di presenza sociale: quello del cattolicesimo progressista. Una larga parte delle realtà che si riconoscevano in quella tradizione esprimeva una forte domanda di cambiamento e di nuova rappresentanza. Bisognava scongiurare un destino di irrilevanza.

Ermanno Gorrieri, non a caso, sottolineava il “patrimonio di valori e di capacità propositive e operative che può ancora dare un decisivo contributo allo sviluppo della democrazia italiana”.

Era forte tra i fondatori l’idea, alimentata dalla passione e dalla responsabilità, che bisognasse preservare quel patrimonio e metterlo in gioco in una fase di rinnovamento della società e della politica. Era chiaro l’obiettivo: costruire una nuova aggregazione politica della sinistra riformista, nel tempo del bipolarismo nascente, con il contributo di quel cristianesimo sociale che non si riconosceva nel percorso del nuovo Partito popolare che stava per nascere al centro dello schieramento politico, sotto la direzione di Mino Martinazzoli e della risorgente “sinistra Dc”.

I Cristiano sociali nascono, dunque, per assicurare uno sbocco politico nuovo ad un riformismo cristiano largamente presente nei gruppi dirigenti e nel corpo associativo di organizzazioni come le Acli, la Cisl, il Movi, Confcooperative, la Rete di Leo Luca Orlando, l’Agesci, l’Azione cattolica e molte altre.

Gli obiettivi discussi e definiti esplicitamente nelle Assemblee di fondazione, come tutti sappiamo, erano sostanzialmente due:

la costituzione di un soggetto unitario dei riformisti, con una forte e significativa presenza di ispirazione cristiana;

l’esigenza di portare alla ribalta i problemi della politica sociale e le connesse esigenze di redistribuzione delle risorse a favore della povera gente.

Nel corso degli anni, a questi due indirizzi fondamentali, si è aggiunto quello relativo alla costruzione di un nuovo rapporto tra etica, laicità e politica.

Il senso dei nostri vent’anni  

Cercheremo di fare in un’altra sede un bilancio serio e rigoroso di questi vent’anni di impegno e di presenza. In questa Assemblea, pressata dall’urgenza di scegliere e decidere, mi preme mettere l’accento sul senso che l’esperienza dei Cristiano sociali ha avuto dentro gli sconvolgimenti senza fine che il nostro sistema politico ha conosciuto in questi stessi anni.

La storia del Movimento, che deve ancora essere scritta, è fortemente intrecciata con le vicende della sinistra riformista e del cristianesimo sociale ed ha avuto in esse un ruolo di rilievo.

Penso alla costituzione della coalizione dei Progressisti nel ’94, alla scelta dell’Ulivo, alla costituzione dei Democratici di sinistra e al più recente approdo del Partito democratico, che si è costituito anche grazie al nostro contributo.

Penso alle nostre battaglie parlamentari sui temi della pace, del lavoro, delle politiche sociali e famigliari, dell’immigrazione, della sussidiarietà e del Terzo settore, della giustizia, della libertà religiosa, dei nuovi diritti di libertà e delle responsabilità ad essi connesse, della laicità nei rapporti tra sfera pubblica e dimensione religiosa.

LaicitàBuona politica e Riformismo solidale sono le parole chiave che riassumono bene questo percorso, sviluppato in varie forme e con gli esiti importanti che tutti ricordiamo: la rivista, i convegni di Assisi, i documenti e i pronunciamenti prodotti negli incontri e nei seminari tematici, le proposte di legge, il lavoro nelle assemblee elettive e nelle amministrazioni locali, la presenza nel partito e nelle organizzazioni sindacali e associative di riferimento, il fitto confronto con il variegato mondo del volontariato e della cooperazione sociale, il dialogo con le istanze più significative della Chiesa…

La presenza sui media e nella comunicazione non sempre è stata all’altezza di questa importante e significativa esperienza. Però i riflessi sull’attività legislativa e sulle vicende parlamentari, politiche e sociali sono stati indubbiamente rilevanti.

Si tratta di un patrimonio culturale e politico importante, che abbiamo il dovere di mettere in sicurezza, anche per offrirlo all’attenzione della ricerca storica, del dibattito pubblico, della elaborazione e della formazione politica entro gli spazi del riformismo democratico.

Pd: il grande obiettivo raggiunto

Mi sento di confermare quel che altre volte ci siamo detti: non siamo in difficoltà perché abbiamo smarrito noi stessi e il senso del nostro cammino; lo siamo, paradossalmente, perché con la nascita del Pd abbiamo conseguito e raggiunto l’obiettivo per il quale il Movimento era stato pensato: unire i riformisti democratici italiani.

Abbiamo convenuto, già nell’Assemblea di Roma del 2010, che la costruzione del nuovo partito si sarebbe protratta ben oltre la fase costituente. E questo anche a causa delle condizioni e dei modi in cui ci si era arrivati: con le diverse componenti ancora troppo attardate a far valere se stesse, ad imprimere la propria impronta nella nuova formazione piuttosto che proiettate a far nascere qualcosa di realmente nuovo.

Il partito doveva ancora consolidare il suo profilo e la sua iniziativa ma, proprio per questo, non aveva più senso marcare al suo interno una componentepolitica identitaria. Serviva, al contrario, mettersi al servizio di un reciproco contaminarsi delle diverse culture confluite nel partito per elaborare quella nuova cultura politica che tardava a prendere corpo.

Dentro le convulsioni del sistema politico

Scegliemmo, allora, di assumere l’attuale forma associativa e di tentare la strada del Laboratorio di formazione e di cultura politica “Italia Solidarietà”, concepito anche come modo di aprirci a nuovi apporti e nuovi collegamenti e come strumento per accompagnare la costruzione del Pd.

Decidemmo dicollocare più nettamente i CS in una funzione di cerniera tra società e politica, fermo restando il rapporto preferenziale con il Pd. Il compito assegnato all’Associazione risultava così politicamente meno esposto ma sempre ambizioso: contribuire ad elaborare e comunicare una cultura politica all’altezza delle sfide così drammaticamente imposte dal tempo in cui viviamo.

Rileggendo oggi i testi di quell’assemblea e del successivo convegno di Assisi dedicato al tema “Per l’uguaglianza nell’era dell’ingiustizia”, si può senz’altro affermare che avevamo lucidamente individuato lo scenario che stava sopraggiungendo e avevamo cercato di indicare le vie per le quali la sinistra democratica avrebbe potuto fronteggiarlo. Avrebbe potuto ma non è stata in grado.

La destra berlusconiana è crollata sotto l’urto di una recessione che aveva a lungo negato e che aveva contribuito ad aggravare con la propria inadeguatezza. La destra è crollata ma la sinistra non ha saputo affermare l’alternativa. Per i propri limiti e, più ancora, perché il marcire della crisi e il supporto dato al governo Monti avevano alimentato ribellione e rifiuto anche tra le sue fila. A trarne vantaggio, oltre ogni “ragionevole” previsione, è stato Grillo.

Quel che è accaduto con le politiche dello scorso anno, la mancata elezione di Prodi alla Presidenza della repubblica, il governo Letta e poi la straordinaria vittoria di Matteo Renzi nelle primarie del Pd e il suo discusso sostituirsi a Letta come premier nel governo delle “piccole intese” è cronaca dell’ultimo anno.

L’allentarsi del rapporto con i nostri referenti sociali 

Alla base delle nostre difficoltà c’è però un altro fattore, il più decisivo. Un fattore che ho personalmente più volte segnalato, che abbiamo tentato a più riprese di superare senza riuscirvi: il progressivo allentarsi dei nostri rapporti con i nostri referenti sociali, Cisl e Acli in primo luogo.

Sindacato e associazionismo di matrice cattolica, l’abbiamo ricordato, sono stati determinanti nella fondazione dei Cristiano sociali e per una fase rilevante della vita del Movimento.

Da tempo, però, quelle stesse organizzazioni sono alle prese con i contraccolpi della estenuante crisi del Paese, con  processi di mutamento sul cui segno è bene ancora riflettere.

L’appannamento e il ridimensionamento del loro ruolo politico è un dato evidente ed è anzi uno dei fattori della crisi politica e democratica che investe il nostro Paese. Sempre meno rilevanti nei processi di innovazione e di cambiamento della società, dell’economia e della politica, hanno visto ridursi radicalmente le loro capacità di rappresentanza tra le nuove generazioni e stentano a mantenere una presenza significativa nel dibattito pubblico. Evidente, inoltre, è stata la perdita di autonomia dei loro gruppi dirigenti rispetto alla Chiesa italiana e alla politica.

Questa crescente difficoltà ha ridotto la nostra forza e la nostra rappresentatività. E questo perché si è tradotta nella rinuncia del sindacato e dell’associazionismo di promozione sociale a svolgere una funzione preziosa: dare forma anche politica alle domande sociali, fino a proiettare, attraverso i partiti, propri esponenti nelle istituzioni.

Dentro questa deriva, c’è toccato di vedere forze sociali storicamente a noi vicine dislocarsi in modo innaturale nello schieramento politico. I due convegni di Todi hanno registrato la scelta moderata compiuta dai massimi dirigenti di importanti organizzazioni, tra cui Acli, Cisl, Confcooperative, Coltivatori Diretti, Comunità di S. Egidio. E questa dislocazione è stata confermata, dopo il risultato elettorale deludente della Scelta Civica di Mario Monti, con la scissione dell’ala vicina a quelle organizzazioni, quella di Dellai, Olivero e Marazziti, attratta addirittura dall’Udc di Casini. Molto lontano, dunque, dalle nostre scelte nell’ambito della sinistra democratica.

Noi abbiamo sempre considerato salutare il pluralismo politico dei cattolici. Ma qui siamo di fronte ad un altro fenomeno, che si chiama trasformismo e che ha a che fare con la crisi della politica, con l’opportunismo e la perdita di credibilità della sua classe dirigente.

Nel comprendere le ragioni della nostra perdita di rappresentanza sociale dobbiamo considerare un altro aspetto importante: dalle trasformazioni sociali è emerso, anche nell’area cattolica, un ventaglio di nuove soggettività associative dai caratteri molto diversi da quelle precedenti ma a noi vicine per sensibilità sociale. Sono spesso esperienze di alta intensità etica e solidale, fortemente ancorate al territorio o alle dinamiche del web o a entrambe, spesso con spiccate capacità di produzione di servizi e con una diffusa integrazione tra lavoro volontario e lavoro professionale. Avrebbero potuto essere nostri interlocutori privilegiati ma non è stato così. Forse siamo apparsi anche noi troppo interni alle dinamiche della vecchia politica.

Queste esperienze, in genere, si tengono lontano dai partiti tradizionali ma non poche fiancheggiano forze politiche radicali e votano per loro (anche per il Movimento cinque stelle). Sono gelose della propria autonomia ed entrano in rapporto con la politica e le istituzioni soltanto per negoziare obiettivi e opportunità legate al loro specifico ambito di intervento: ambiente, legalità, welfare di comunità, beni comuni, economia solidale, cultura, pace, cooperazione allo sviluppo, ricerca…

Il ruolo di servizio alla società che esse svolgono è di grande rilievo. Però il loro non far valere in modo più consapevole e incisivo la propria politicità, la propria autentica vocazione per il bene comune, fa venir meno una importante risorsa per la democrazia in forte difficoltà e per le sue esigenze di rigenerazione.

Tutto questo ci conferma un dato di fatto: se il movimento politico dei Cristiano sociali pensato dai nostri fondatori registra serie difficoltà è perché da tempo i soggetti che lo avevano promosso hanno deciso di guardare altrove; perché hanno trovato altri modi per esprimere o rappresentare i propri interessi e le proprie ragioni nella politica e nelle istituzioni.

C’è qui uno dei nodi che l’Assemblea deve sciogliere: possiamo ancora allargare le distanze dall’insieme di questi mondi? e avrebbe senso un’ipotesi di autosufficienza, ammesso che fossimo in grado di sostenerla?

Un percorso più difficile del previsto

Le dinamiche di cui ho parlato hanno reso il nuovo percorso tracciato dalla precedente Assemblea più difficile del previsto. Esso pretendeva due condizioni determinanti: tenere unito e impegnato un nucleo consistente di nostri associati e stabilire nuove collaborazioni con intelligenze, saperi, centri di ricerca in grado di mettere su basi solide l’elaborazione e la formazione che ci proponevamo. Ebbene è su queste due condizioni, e soprattutto sulla seconda, che non siamo riusciti a tenere il passo.

Eppure ci abbiamo provato e in più direzioni ma con risultati limitati. Ci siamo collegati ai C3dem e, nella fase congressuale del Pd, alla Costituente delle idee.

Oggi la situazione, per noi, si è fatta insostenibile e abbiamo tutti la responsabilità di  compiere scelte consapevoli e impegnative se non vogliamo vedere seriamente compromesso il patrimonio di credibilità, di cultura e di esperienza politica che i Cristiano Sociali hanno saputo sedimentare. Scelte decisive per la nostra organizzazione e per la vita personale di ciascuno di noi; scelte che dobbiamo compiere tenendo conto dell’impegno e della passione delle migliaia di donne e di uomini che in tutti questi anni si sono messi in gioco nel nostro Movimento.

 

III. CHIESA E CATTOLICI NEL TEMPO DI FRANCESCO

Un vento inatteso e vivificante

Se oggi, gettandoci alle spalle le nostre fatiche, possiamo parlare di un “tempo nuovo”, è per una ragione sopra tutte le altre: papa Francesco; un forte e inatteso segno di speranza, uno stupendo e concreto squarcio di futuro.

Vi propongo, nel segno di questa speranza, alcune considerazioni sulla prima dimensione costitutiva dei Cristiano sociali: la nostra fede.

L’elezione di Bergoglio è stata da subito una buona notizia, tanto più buona perché inattesa. La novità. come sappiamo, è stata propiziata dal gesto profetico delle dimissioni di Benedetto XVI.

Francesco ha riscosso da subito e poi in misura crescente consensi vastissimi. E non lo ha fatto mettendo al centro se stesso – anche se la sua umanità sorridente e accogliente è molto amata – ma il Vangelo, i poveri, i diseredati.

Una novità dirompente

La sua novità dirompente non sta nel suo essere più o meno progressista; sta in una interpretazione del Concilio che poggia su una lunga esperienza pastorale compiuta nella realtà latino-americana. Ha potuto sperimentarsi qui la sua straordinaria empatia verso i piccoli, e qui è maturato il suo linguaggio autentico, immediato, persino popolare.

Attenti, però.  Il suo magistero, misericordioso e aperto, è anche esigente. Tutto, in lui – a cominciare dal porre subito mano ad una riforma della Chiesa che la renda “povera e per i poveri” –, discende in linea diretta dalla sua fedeltà al Vangelo, non da una visione geopolitica o da una erudizione teologica.

Questo conduce papa Francesco ad avere sul rapporto tra fede e storia, quindi tra fede e politica, una posizione agli antipodi di quella a lungo prevalsa nella chiesa italiana.

Nella sua teologia popolare siamo tutti chiamati a farci discepoli missionari, testimoni dell’amore misericordioso di Dio, anche in politica. La politica, come la fede, ha senso solo se è fortemente ancorata ai poveri e ai diseredati, ad un operare per la giustizia e la pace.

A voler utilizzare le tre categorie cui siamo affezionati: presenza, mediazione, paradosso (o radicalità),  a Francesco si può riferire, senza forzature, la terza. Ed è una bella novità per un papa!

Bergoglio ha subito archiviato la linea della presenza dei cattolici in politica centrata sulla difesa dei “valori non negoziabili”. È arrivato ad affermare, nell’intervista al Corriere della Sera, di non aver mai capito questa espressione.

Per papa Francesco i valori fondanti, dai quali tutti gli altri discendono, sono l’amore del prossimo, la carità, la misericordia. E vanno testimoniati con capacità di ascolto e di accoglienza perché la chiesa non esiste per i credenti benpensanti, esiste per chi è lontano, ferito, emarginato. La Chiesa, non si stanca di ripetere, è come un “ospedale da campo”.

Siamo lontani dalla linea della ricomposizione culturale dei cattolici. Dalla lunga stagione di protagonismo promossa dai vescovi italiani e tesa a raggiungere due obiettivi: proporre la fede cristiana come religione civile strutturata attorno ai valori eticamente sensibili; organizzare i cattolici come lobby trasversale in grado di sostenere nei diversi partiti, oltre a quei valori, gli interessi materiali della Chiesa.

Quel protagonismo è riuscito ad inibire la piena affermazione di nuovi diritti e responsabilità nel nostro ordinamento ed ha esposto la chiesa italiana a strumentalizzazioni politiche da parte di una destra tutt’altro che eticamente irreprensibile. Si è invece rivelato del tutto irrilevante nel far avanzare una nuova etica civile e nell’affermare politiche economiche e sociali ispirate al magistero sociale della Chiesa.

Si deve anzi ricordare che – veicolando in modo pressante il messaggio che la questione sociale era ormai diventata questione antropologica – si è finito col contribuire ad una certa svalutazione della questione sociale, proprio nel momento in cui l’ingiustizia e la sofferenza sociale stavano facendosi più acute e più aspre.

Bergoglio e la politica

Francesco non pretende di dirigerci nel nostro impegno politico: esalta la nostra responsabilità laicale e non mette in questione la laicità dello Stato. Critica invece il clericalismo che penalizza i laici e le donne in modo particolare, mantenendoli al margine delle decisioni o assorbendoli in compiti intraecclesiali, senza un reale impegno per far fermentare il Vangelo nella società.

Quella del nuovo vescovo di Roma, come ama definirsi, è una spiritualità radicalmente evangelica e, per questo, misericordiosa, universalistica, operosa.

Lui sa che è importante evangelizzare le culture, anche le culture politiche. Ma sa che per il bene comune bisogna lavorare con tutti gli uomini di buona volontà in continua ricerca di incontro, di dialogo. Quel che conta, per lui, è che i credenti stiano dentro questo lavoro comune con tutta la loro intelligenza e creatività ma che ci stiano da testimoni credibili del Vangelo. Per lui una laicità autenticamente cristiana è chiamata ad animare la laicità democratica.

Claudio Sardo ha giustamente osservato che con Bergoglio, primo papa ordinato sacerdote dopo il Concilio, si è prodotta una rottura importante nella consolidata cultura del cattolicesimo democratico e sociale: papa Francesco non parla di partiti cristiani o di ispirazione religiosa, di mediazione tra valori e opzioni politiche preferenziali, di programmi o di agende della politica, di unità politica, culturale o sociale dei cattolici impegnati nella società…

La sua non ingerenza nella politica, però, non spinge al disimpegno. La politica resta un’espressione della carità, la più alta, e noi cristiani dobbiamo occuparcene in quanto cittadini, non in forme separate; ci è chiesto di impegnarci sulle frontiere più difficili, dove la libertà e la dignità dell’uomo sono minacciate dalla povertà, dalla disoccupazione, dalla economia che uccide, dal dominio dell’avidità e del profitto.

Tutto ciò ci sollecita a riprendere un pensiero critico (parole di rottura) sulla storia e sulla società; a coltivare uno sguardo severo sulle cose del mondo, illuminato da una speranza che sollecita e promuove il cambiamento, la partecipazione, l’impegno personale e collettivo.

Quale prospettiva per i cattolici in politica? 

Una valutazione realistica ci porta a dire che la cattolicità italiana, nel suo insieme, è fortemente segnata dalla lunga stagione neo-gentiloniana che sta alle nostre spalle. Il nuovo papato, però,  apre nuove prospettive all’impegno dei cattolici nella società e nella politica. Il primo compito dei credenti che desiderano accogliere questa novità impetuosa, è operare perché il magistero di Francesco avanzi e metta radici nella comunità ecclesiale e nelle organizzazioni del sociale cattolico.

Un processo di riforma della Chiesa ci sta molto a cuore: come credenti, anzitutto, ma anche come associazione dei Cristiano sociali. Nel documento conclusivo della nostra IX Assemblea abbiamo scritto, all’unanimità:

«Alla Chiesa italiana, dunque, chiediamo di ritrovare una capacità di rinnovare se stessa nella linea tracciata dal Vaticano II. Le chiediamo la ricerca perseverante di una più trasparente fedeltà al Vangelo e di una più diffusa capacità di testimoniarlo con coraggio e mitezza. Nella storia, noi, non stiamo da stranieri ma da fratelli di tutti, pronti a discernere il bene che cresce anche fuori il corpo riconoscibile della Chiesa. La missione del Popolo di Dio in cammino è universale; non conosce nemici né confini recintati ma una grande apertura all’amicizia e alla condivisione con tutte le donne e tutti gli uomini».

Possiamo leggere questa richiesta, oggi, quasi come un’invocazione esaudita.

Questo magistero potrà finalmente liberare l’autonomia del laicato cattolico. Potrà  creare le condizioni per far emergere quel “laicato adulto” e impegnato in politica, tanto invocato da papi e vescovi salvo poi aver impedito, nelle concrete scelte d’ogni giorno, la sua formazione e la sua affermazione.

Quali prospettive questo tempo nuovo della chiesa apre per i cattolici in politica? Mi sembra anzitutto di poter affermare che il pontificato di Francesco ci aiuterà a superare una forte, specifica difficoltà di fronte alla quale la costruzione del Pd si era trovata: la più ardita e avanzata operazione politica che una parte consistente del cattolicesimo democratico aveva intrapreso ha dovuto fare i conti con un quadro ecclesiale che invece si è mosso per avversarla.

Tutto lascia intravvedere che papa Bergoglio non farà scelte politiche preferenziali e che però il suo magistero e la sua azione riformatrice faranno venir meno quell’orientamento e quella pretesa; renderanno noi cattolici ad un tempo più liberi e più responsabili nel nostro agire politico.

Una seconda cosa mi sembra invece confermata: il tempo dei partiti cattolici è finito (forse anche il tempo dei movimenti politici cattolici). La stagione che ha preteso di riunificare e dirigere dall’alto, del resto, ha ottenuto l’effetto contrario: ne usciamo con un pluralismo culturale e politico dei cattolici perfino esasperato. Il riferimento di fede è diventato a volte un pretesto, dentro i partiti, per creare posizioni di rendita in un pluralismo vissuto agonisticamente.

Noi, che abbiamo fatto valere la nostra identità di Cristiano sociali nell’unificazione dei riformisti democratici, sosteniamo invece che il pluralismo è un valore e un dato di fatto; che non è più tempo di correnti o componenti cattoliche nella politica e nei partiti e che i credentipossono testimoniare efficacemente la loro fede, in politica, quando agiscono laicamente, quando collaborano con tutti coloro che condividono un progetto politico.

Il tempo nuovo sembra spingere in questa direzione: e si può prevedere che quanti oggi si attardano su vecchie derive identitarie, su ricomposizioni basate sull’equazione falsificante cattolici=moderati e di centro dovranno prenderne atto.

Non disponiamo forse oggi di un esempio inequivocabile che la strada del pluralismo cooperativo funziona? Il successo strepitoso di Matteo Renzi, cattolico doc, si basa proprio sulla sua laica capacità di attraversare tutti i vecchi recinti, di collaborare con tutti coloro che condividono il percorso da lui tracciato.

 

IV. UNA QUESTIONE SOCIALE INSOSTENIBILE

In un contesto drammatico 

Sono ora alla seconda dimensione della nostra identità: la questione sociale. L’ingiustizia e la sofferenza sociale, nel nostro Paese, sono ben oltre la soglia di guardia. Coesione sociale e sistema dei diritti hanno conosciuto in questi anni una vera regressione. Lo si deve certamente alla più grave crisi recessiva dopo quella del 1929. Ma se gli effetti sono così devastanti lo si deve anche al modo disastroso in cui l’Italia è stata governata dalla destra e all’incapacità della sinistra di contrastarla adeguatamente.

Non è il caso, tra noi, di elencare ancora una volta i dati che dicono l’entità della questione sociale: la disoccupazione, in particolare quella  giovanile; il rapido e progressivo impoverimento della popolazione; la disperazione di un numero crescente di giovani costretti a emigrare per trovare un posto di lavoro e  costruirsi un avvenire; la sofferenza di tante famiglie, di  pensionati, di piccoli imprenditori…

Il riformismo solidale è ancora più urgente  

La drammaticità dello scenario economico-sociale del Paese, rende più acuto l’amaro in bocca che avverto per la situazione in cui si è venuta a trovare la nostra associazione.

Il riformismo solidale elaborato nel tempo dai Cristiano Sociali sarebbe risorsa più che mai utile; non solo per le idee-forza che lo sostanziano ma anche per l’elaborazione progettuale che abbiamo sedimentato. Penso, ad esempio, al prezioso materiale sulle politiche della famiglia, sul terzo settore, sulla riforma degli ammortizzatori sociali e sulla prospettiva del reddito minimo garantito, sulla riduzione dell’orario di lavoro in una logica di solidarietà piena e concreta…

Abbiamo sempre cercato di portare nella sinistra una specifica sensibilità per la questione sociale, il contrasto alle povertà e alle diseguaglianze. Abbiamo fatto proposte, elaborato strategie, promosso iniziative legislative.

Ricordo che al Congresso dei Ds del 2000 a Torino, la parola “uguaglianza” non si poteva neppure pronunciare. Si parlava, allora, di eguali opportunità. Se siamo tornati, col tempo, a far coincidere la parola “sinistra” con quella di “eguaglianza” (come ha insegnato tra gli altri Norberto Bobbio), lo si deve anche al nostro impegno e al nostro lavoro. Oggi, il Pd, su questo punto, tutt’altro che secondario, rischia di nuovo di perdere il suo senso.

L’emergenza lavoro e una nuova idea di giustizia e di solidarietà 

Non si possono affrontare i problemi della società italiana, se non sulla base di una nuova idea di giustizia e di solidarietà. Il lavoro è l’emergenza delle emergenze. La paura sta azzerando la fiducia. Il rancore e il risentimento, in particolare dei giovani, possono completare l’opera della corrosione delle reti di solidarietà generazionali e di welfare che ancora tengono insieme le famiglie e la stessa società italiana.

Non può sopravvivere una società con i livelli di sofferenza sociale che si sono accumulati nel corso di questi ultimi anni. La politica ha tardato a comprendere la gravità della situazione.

Non può resistere un’economia, dopo anni di decrescita, che resta ferma alle dottrine rigoriste e si mostra incapace di invertire la rotta del declino e della recessione.

È in questa battaglia sulla questione sociale e sul lavoro che la sinistra misura la sua capacità di guardare al futuro e di farsi nuovamente strumento di coesione sociale, di allargamento dei diritti, di riduzione delle disuguaglianze.

Certo ci sono i temi della crisi del sistema politico, della paralisi istituzionale, della nuova legge elettorale, della riforma dei partiti, del contrasto delle mafie e della corruzione… ma la bussola è il lavoro, che deve diventare l’ossessione della sinistra democratica; perché, senza lavoro, sarà impossibile anche ricostruire le istituzioni della democrazia e della politica su una sufficiente base di consenso. La priorità del lavoro è il solo indirizzo possibile di un Governo al servizio del Paese.

Oggi più che mai serve, ne siamo convinti, una nuova radicalità riformatrice per aggredire i nodi veri della crisi italiana e per dare un orizzonte sicuro a parole comecambiamentogiustizia socialesvilupposolidarietà.

Sono, questi, solo alcuni dei criteri selettivi con i quali valutare e incalzare anche l’azione del governo Renzi che, dagli annunci di questi giorni, sembra voler felicemente invertire l’ordine delle priorità che, da Prodi a Berlusconi, da Monti a  Letta, ha visto il rigore sempre collocato al primo posto. Renzi, con le misure discusse nel recente Consiglio dei Ministri, intende invece ripartire dallo sviluppo e dall’equità. Se, dunque, alle parole seguiranno i fatti, possiamo dire di trovarci di
fronte ad una svolta davveroimportante.

Ci sarebbero poi da considerare la politica europea e la politica internazionale del nuovo governo; dimensioni davvero decisive, oggi, per l’insieme delle politiche nazionali; senza contare che di fatto siamo già dentro una campagna per le elezioni europee, le prime che eleggeranno direttamente il presidente della Commissione. È però un tema che esula dai limiti che questa relazione si è autoimposti.

Non certo perché lo sottovalutiamo. Le possibilità reali di uscire dalla crisi verso approdi accettabili sono in gran parte legate al quadro politico europeo che emergerà dalle prossime elezioni. E la prospettiva non è rassicurante: in tutto il continente la linea dell’austerità ad oltranza ha alimentato una critica radicale verso questa Unione europea e le forze populiste che la cavalcano rischiano di risultare consistenti fattori di incertezza e di instabilità.

 

V. UNO SCENARIO POLITICO NUOVO ED INCERTO

Renzi: un fatto nuovo importante 

Giungo infine alla terza dimensione costitutiva dei Cristiano sociali: la politica. In che senso si può parlare qui di un “tempo nuovo”? Non siamo forse di fronte al dilagante degrado della vita pubblica?  Non sono drammatiche le cifre segnalate dalla UE sulle dimensioni abnormi raggiunte dal fenomeno della corruzione nel nostro Paese? La caduta di credibilità del ceto politico e di gran parte della classe dirigente non è forse a livelli mai raggiunti prima?

Siamo dentro uno scenario piuttosto inquietante. Non possiamo però sottovalutare il fatto nuovo che sta dando uno scossone all’intero quadro politico: l’irruzione di Matteo Renzi, la sua elezione travolgente alla segreteria, il suo avvicendamento alla Presidenza del consiglio, nonostante i modi in cui è avvenuto.

La vittoria di Renzi alle primarie era ampiamente prevista, inaspettate sono invece state le sue proporzioni. Molti di noi, facendo una scelta che è sembrata più coerente con i nostri orientamenti precedenti, si sono schierati con Cuperlo. Abbiamo valutato, tra l’altro, che le posizioni di Gianni sulla questione sociale e sulla concezione del partito fossero più vicine alle nostre, almeno per quel che era possibile capire dalla piattaforma piuttosto generica, allora, del sindaco di Firenze.

Quel che non ci piace 

Trovo decisamente improprio, per il costume di una sinistra democratica, il modo in cui Renzi ha sostanzialmente rimosso Letta dal governo per sostituirsi a lui. Vedo poi come un rischioso fattore di instabilità, per lo stesso governo, la compresenza di due maggioranze: una per le riforme istituzionali e una per governare. La cosa, in sé complicata, è resa ancor più difficilmente gestibile dal fatto che su quelle riforme Renzi ha cercato la “profonda sintonia” con Berlusconi prima ancora di avere cercato un’intesa nella maggioranza che sosteneva allora Letta e che oggi sostiene lui.

L’intesa con Forza Italia era un passaggio quasi obbligato, visto l’atteggiamento dei grillini, ma c’è modo e modo. A quell’intesa e ai contenuti che essa ha fissato per la riforma della legge elettorale, si è pagato e si sta pagando un prezzo troppo alto: di immagine, anzitutto; ma anche di qualità dell’azione riformatrice.

Le difficoltà che il cammino dell’Italicum ha incontrato alla Camera dicono che l’aver negoziato con Berlusconi un pacchetto rigido, del tipo prendere o lasciare, esaspera il confronto politico anche nei gruppi parlamentari del Pd: che si tratti delle liste bloccate, della questione della parità di genere oppure della misura e della disparità delle soglie di sbarramento. E non manca chi accusa quella riforma di incostituzionalità.

Non tutto, nei successi di Renzi, è frutto del suo fiuto e della sua intraprendenza incontenibile. Lui deve molto alla messa fuori gioco di Berlusconi dopo la condanna e la decadenza dal Senato; e molto deve alla determinazione di Letta nel farsi interlocutore della scissione alfaniana del Pdl e nel fare una prima parte importante del lavoro di risanamento finanziario e di riaccreditamento internazionale dell’Italia.

È chiaro, in ogni caso, che il passo di Letta e del suo Governo, a quasi un anno dall’insediamento è apparso incerto e largamente inadeguato, rispetto alla svolta radicale richiesta da un paese allo stremo e dalle dirompenti emergenze sociali e politiche.

Va incalzato in modo costruttivo 

I rilievi critici mossi a suo tempo e la constatazione che Matteo Renzi appare spesso  dissonante con la nostra cultura politica, non mi impediscono dunque di vedere che il governo Renzi, ora che c’è, sta osando la più incisiva e radicale azione riformatrice da molti decenni a questa parte.

È dunque una risorsa importante; una risorsa che il Pd e l’intera sinistra italiana non possono permettersi di ostacolare o di lasciare a se stessa. Il suo governo è l’ultima occasione, per l’Italia, di riemergere da una crisi distruttiva. Ed è anche la sfida decisiva per il Pd: se Renzi non ce la farà, si aprirà  uno scenario ancora più confuso e destabilizzante che travolgerà anche il partito.

Fare la fronda a Renzi, in questa situazione, sarebbe semplicemente irresponsabile. Penso anch’io, come lo stesso Cuperlo del resto, che l’azione del governo vada sostenuta lealmente. Ma non acriticamente. Per più ragioni.

La prima è che questo non è un governo del Pd e, dunque, bisogna stare attenti a non schiacciare i gruppi parlamentari, e a maggior ragione il partito, sulle sue posizioni; che sono strette, tra l’altro, tra due fuochi: da un lato i vincoli posti dall’Unione europea e le indebite pretese di una Germania egemone negli attuali equilibri geo-politici del continente; dall’altro i livelli di tensione e di mediazione imposti da una maggioranza di governo composita, che vede i piccoli partiti cercare continuamente di lucrare la propria rendita di posizione.

Non si deve ripetere, insomma, l’errore già commesso con il governo Monti. Certo, questa volta c’è un governo politico presieduto dal segretario del Pd; ma proprio per questo il partito deve individuare, anche sulle singole scadenze e sui singoli temi, atteggiamenti e posizioni che mettano in luce le differenze tra le mediazioni raggiunte nella maggioranza e il programma autonomo del partito. Cercando così di aiutare anche Renzi a trovare, dentro il Governo e in Parlamento, punti di sintesi più avanzati. Da questo punto di vista, la coincidenza delle cariche di capo del governo e segretario del Pd non aiuta e bisognerà trovare rapidamente il modo di garantire al partito il margine di autonomia necessario per qualificare meglio il proprio contributo all’azione di governo, ma anche il proprio profilo nella società e di fronte agli elettori.

Il governo Renzi va dunque incalzato in modo costruttivo. Tutti sono chiamati a fare propria la scommessa delle riforme istituzionali, sociali, economiche.

Il suo disegno, oggi appare più definito nei suoi contorni e nelle sue strategie. L’insieme di riforme che ha messo sul tavolo cerca di muoversi, dentro i vincoli dati, nella linea della flexi-security che fu definita dal Consiglio europeo di Lisbona e che a lungo è rimasta sulla carta. È una linea, com’è noto, basata sul cosiddetto “triangolo d’oro”: regolazione flessibile delle entrate e delle uscite nei rapporti di lavoro; sicurezza di reddito in caso di difficoltà occupazionale (sospensione/interruzione); sistema efficace di politiche attive per il reimpiego). Il disegno renziano si muove nella stessa direzione: interventi sul mercato del lavoro che recuperano la flessibilità necessaria alle imprese per competere sul mercato globale, vengono affiancate  una riforma degli ammortizzatori sociali e politiche di reinserimento rivolte ad attenuare gli effetti di insicurezza e di precarietà provocati dalla flessibilità accresciuta.

Siamo ancora lontani da un reale riequilibrio tra flessibilità e sicurezza, viste anche le forme di flessibilità selvaggia che sono una realtà consistente nel nostro mercato del lavoro.

Nel pacchetto che si discute in questi giorni ci sono misure che appartengonoda tempo al patrimonio della sinistra: la riduzione dell’Irpef per i lavoratori dipendenti; l’aumento delle tasse sulle rendite finanziarie con esclusione di Bot e Titoli di Stato; la riduzione delle spese militari con annunciato dimezzamento degli F35 (segnalo che, sia con Monti sia con Letta, una simile proposta fu considerata irricevibile in quanto velleitaria e propagandistica);  i finanziamenti per l’edilizia scolastica e per il terzo settore; il pagamento alle imprese dei debiti della pubblica amministrazione; le iniziative contro le mafie e contro la corruzione.

Pd: quel che resta da fare  

Questo non vuol dire che tutto, nel Pd di Renzi, vada per il meglio. È troppo presto, del resto, per attribuirgli tutta la responsabilità per quello che non va. Il partito, in questi anni, ha conosciuto un’involuzione politicista, una “nevrosi” da posizionamento dei suoi gruppi dirigenti, una progressiva professionalizzazione del dibattito e delle dinamiche interne, una crescente insofferenza verso culture, sensibilità e idee non sostenute dagli apparati o dalle correnti congressuali. Al centro e sul territorio la costituzione dei gruppi dirigenti è avvenuta troppo spesso secondo le logiche più antiche e deprecabili di un correntismo che premia le fedeltà e penalizza il merito, le idee, le capacità.

Il ciclone Renzi è figlio legittimo di questa involuzione: ha avuto il merito di capire che l’insofferenza verso i gruppi dirigenti e la loro autoreferenzialità aveva superato la soglia d’allarme e si è candidato ad interpretarla presentandosi come l’alfiere della “rottamazione”. È stata questa la chiave principale del suo successo. Sui metodi e sul linguaggio con cui lo ha ottenuto si può discutere criticamente e a lungo. La valanga di consensi che lo ha premiato dice però che quella sua aggressività ha intercettato uno stato d’animo diffuso che il gruppo dirigente precedente, di Bersani e di Epifani,  non aveva saputo percepire nella sua durezza e gravità.

Questo non mi impedisce di vedere anche gli effetti negativi di una rottamazione applicata in modo cinico e sbrigativo col risultato di condurre all’avvento di una classe dirigente non sempre selezionata sulla base delle idee e della qualità.

Il rilievo critico più di fondo resta quello di un eccesso di personalizzazione; non solo nella leadership ma nel dibattito dentro il partito, a scapito della discussione fondata sulle idee, sui progetti e sulle identità programmatiche.

Sappiamo bene che, nell’era della complessità sociale e dell’immagine, una giusta personalizzazione della leadership è inevitabile. Il problema sta, per l’appunto, nella misura. Non sfuggo alla percezione che nel segretario attuale del Pd ci sia un’accentuazione seduttiva e una esasperata ricerca del consenso che rasentano il populismo. Non arrivo a dire, come molti malignamente fanno, che Renzi sia l’erede naturale di Berlusconi, dico solo che rischia di assomigliargli troppo.

Una sinistra democratica può esistere solo se è popolare. Se però diventa populista,  cessa semplicemente di esistere come tale. Il populismo è inaccettabile in ogni democrazia degna di questo nome. Per una sinistra democratica è anche politicamente inefficace: noi governiamo per trasformare in senso più giusto e più sostenibile la società, per fare riforme di struttura, appunto. E le riforme non basta deciderle nelle segreterie e neppure nelle istituzioni: se si vogliono raggiungere i risultati che si propongono esse hanno bisogno, in una società come la nostra, di essere accettate dai cittadini e accompagnate dal loro consenso nella decisiva fase dell’attuazione.

Ancora a proposito del Pd dico, costruttivamente, che servono luoghi e modalità più efficaci per favorire la ricerca, il dibattito culturale, la formazione del pensiero critico, la elaborazione delle idee, il confronto delle diversità e il dialogo tra le differenze: fondazioni, riviste, laboratori culturali, circoli tematici… Non per dare consistenza a logiche correntizie e notabilari ma, al contrario, per mescolare davvero le carte in modo da far interagire liberamente tutti i saperi, le passioni, le competenze che abitano il partito. Penso, in questa direzione, a contenitori flessibili, associazioni leggere, aggregazioni non strutturate, dislocate lungo il confine che mantiene il partito in contatto permanente e vitale con la società, con la parte migliore delle soggettività sociali e civili che in essa si organizzano e si diffondono.

Una domanda pressante 

Siamo ancora in grado, noi Cristiano sociali – e se sì in che forme – di fare una nostra parte, piccola o grande che sia, per contribuire a trasformare le opportunità di futuro aperte in questo tempo nuovo in un nuovo protagonismo della sinistra italiana e dei cattolici democratici in essa?

La risposta non può essere affrettata e semplicistica. Una parte rilevante dei soggetti del cattolicesimo sociale e democratico, che tra gli anni 90 e il decennio successivo chiedevano una rappresentanza separata o almeno ben distinta, oggi scommettono su una politica che non separi credenti e non credenti, che non si riconosca nell’ambito di componenti identitarie segnate dalla dimensione/ispirazione religiosa.

Il Pd, del resto, è nato per questa politica. Per unire differenze, superare contrasti, creare sintesi, facilitare integrazione e convergenza; non ha ancora un’identità compiuta, matura, condivisa, ma il percorso è ormai consolidato.

Guardate la crescente difficoltà, nel Pd, delle componenti che si richiamano alla matrice del cattolicesimo democratico e che intendono ancora mantenere un profilo identitario. Quanto può valere ancora e per quanto tempo un’impostazione fondata sul passato e su una storia ormai compiuta?

Quello che conta, adesso, è un partito che si definisce e costruisce la sua proposta sulla base di contenuti programmatici, in cui le diverse componenti si distinguono sulla base delle idee e delle proposte e non in ragione delle vecchie identità e delle “famiglie politiche” del secolo scorso.

Il Pd ha aderito al PSE che nel recente congresso di Roma è divenuto, in coerenza con l’esperienza già fatta nel gruppo parlamentare di Strasburgo, partito dei socialisti e dei democratici. Questo fatto esprime tutto il senso del cammino compiuto: di qui in avanti la famiglia del socialismo europeo esprimerà una sintesi nuova e più avanzata; ed è importante, anche simbolicamente, che sia toccato all’ex dc Renzi condurre in porto un’operazione da molto tempo preparata e discussa.

Per esprimere il senso del punto in cui siamo, non saprei dire di meglio di quanto ha affermato Pietro Scoppola: “I cattolici italiani non sono più alla ricerca di una democrazia cattolica ma di una forma più alta di democrazia, di una democrazia di tutti”.

E aggiungo: nel futuro, la sinistra dovrà essere ancora più ampia e  non potrà essere all’altezza delle sfide di quest’epoca tempestosa, se non sarà plurale e capace di esprimere una cultura politica nuova. Siamo convinti, in proposito, che in questa sinistra aperta e plurale il cattolicesimo democratico e sociale sarà sempre una componente vitale e creativa.

Non dobbiamo dunque vivere con ansia o con malinconia il passaggio che siamo chiamati a compiere. I Cristiano sociali hanno compiuto, con impegno e generosità, la parte più importante della propria missione: il Pd c’è, e se c’è è anche merito nostro. Abbiamo fatto ciò che dovevamo per la parte di responsabilità che ci competeva.

 

VI. LA RESPONSABILITÀ DI SCEGLIERE

La necessità di fare una scelta sostenibile 

Ho cercato di delineare lo scenario dentro il quale, insieme, dobbiamo riflettere, orientarci, decidere.

Vorrei che non fosse avvertito come il frutto di un pessimismo radicale dettato, oltretutto, da una particolare condizione personale. Ho cercato di essere realista. Non ho taciuto le difficoltà ma ho anche cercato di individuare tendenze e dinamiche che stanno aprendo un tempo nuovo. Nuovo non vuol dire facile da abitare. Tutt’altro: è piuttosto un tempo forte che esige orientamento e determinazione.

La nostra Assemblea è chiamata più che mai all’ascolto reciproco, alla discussione franca e costruttiva, alla decisione corale e avveduta. Abbiamo bisogno di un’Assemblea che ci permetta di raccogliere le forze e di orientarle verso una nuova meta, di organizzarci in funzione di un obiettivo possibile e comprensibile.

Abbiamo anche bisogno di confrontarci ancora con i mondi associativi di riferimento; e lo abbiamo fatto, con qualche segnale incoraggiante, anche nelle ultime settimane.

Abbiamo bisogno, soprattutto, di fare una verifica seria e onesta delle disponibilità e dell’impegno possibile di ciascuno di noi. Perché la sostenibilità, e quindi il realismo, di ogni decisione che prenderemo dovranno essere valutate sulla base delle persone che concretamente saranno disponibili ad attuarla.

Non possiamo aspettare ancora. Altrimenti la risposta è già data ed è quella della chiusura della nostra esperienza politica.

Un percorso in due tempi  

Il Comitato Direttivo ha condiviso con me la necessità che a questa riflessione e alle scelte conseguenti si giunga con il massimo coinvolgimento corale, quindi con la possibilità per tutti gli associati di dare il loro contributo alla discussione e alla decisione.

Per questo vi proponiamo, in linea di massima, un percorso in due tempi:

questa Assemblea, che ha il compito di valutare a fondo la situazione e di delineare e decidere il cammino successivo di consultazioni e di confronti;

un’Assemblea straordinaria da tenersi entro l’autunno di quest’anno (in forme innovative, se così decideremo) con il compito di realizzare scelte più definite.

Davanti a noi tre possibili ipotesi 

Le tre ipotesi che vi propongo di indagare sono le seguenti:

Si può proseguire il cammino, e allora bisogna decidere in quale direzione e con quali modalità.

Si può decidere una pausa di ricerca e di riflessione organizzata, per capire, approfondire, discutere, in vista della successiva Assemblea straordinaria, per decidere e magari riportare i Cristiano sociali il più vicino possibile ai luoghi delle origini.

Si può, infine, decidere di arrestare il cammino e dichiarare definitivamente compiuta la missione e esaurita ogni possibilità di futuro. In tal caso, occorre decidere a chi passare il testimone, come impegnare le residue risorse e le presenze ancora disponibili sul territorio.

L’importanza di fare memoria 

C’è un punto che, secondo me e secondo il Direttivo, dovrà essere affrontato in tutte le opzioni: organizzare in modo puntuale il nostro archivio, oggi disperso e frammentato. Si tratta di sistemare i documenti e i testi relativi al lavoro parlamentare, alla elaborazione culturale e politica, ai pronunciamenti e al contenuto del dibattito negli organismi dirigenti. C’è bisogno, in altri termini, di mettere in sicurezza l’insieme delle nostre “carte”, l’accumulo culturale e di esperienza che esse esprimono, le pieghe del nostro cammino nella politica e nella società italiana, lungo gli oltre vent’anni di storia che abbiamo alle spalle.

Già solo questo rendere fruibile il nostro patrimonio storico-culturale per metterlo al servizio di una presenza politica non irrilevante, mi sembra un compito  importante.

Un’ipotesi tutta da verificare  

Sulle opzioni che proponiamo alla discussione ho, naturalmente, le mie opinioni. Credo però più importante, in questo momento, al termine del mio lungo mandato, che siate voi ad esprimere le vostre.

Sarei però reticente se non dicessi che, nelle ultime settimane, il gruppo dirigente nazionale ha fatto qualche passo concreto per capire se una delle opzioni, quella di proseguire il cammino e in quali forme, avesse o no possibilità reali di essere tentata.

È più volte emersa, nel passato anche recente, l’idea di una Fondazione promossa insieme alle organizzazioni che sono alle origini della nostra storia. Non siamo riusciti a metterla concretamente in cantiere per mancanza di una disponibilità seria da parte degli interlocutori.

È possibile riprenderla, ora, nelle condizioni politiche mutate, nel nuovo clima ecclesiale? È possibile un’iniziativa che unisca forze, che faccia ritrovare le ragioni di un impegno comune sui temi del lavoro e del welfare, della democrazia partecipativa, della questione sociale, dei beni comuni, dei nuovi diritti delle persone?

Abbiamo sondato il terreno per verificare, ancora una volta, questa possibilità. In realtà è stato qualcosa di più di un sondaggio: si è aperto un dialogo, si sono verificate alcune disponibilità interessanti. L’ipotesi che sembra emergere è quella di una iniziativa basata – almeno inizialmente – su due linee distinte ma convergenti:

l’avvio, a tempi brevi, di un campo nuovo di ricerca che proponga al dibattito tre, quattro temi chiave (il lavoro e lo sviluppo, la nuova questione democratica, i nuovi diritti e il pensiero della differenza, il welfare,…); sarebbe promosso da un gruppo di personalità (e qui dovrebbe essere decisivo l’apporto di saperi, competenze biografie esterni ai Cristiano sociali);

una partnership su basi paritarie con la fondazione, già in attività da alcuni anni, promossa da una delle associazioni fondatrici dei Cristiano sociali; si tratterebbe, qui, di unificare sedi e amministrazioni.

Vi informo di questa possibilità perché possiate tenerne conto ma vi prego di non percepirla come proposta di una scelta teleguidata. Spero anzi che altre proposte emergano dal dibattito. Toccherà al gruppo dirigente che sarà espresso da questa Assemblea verificare fino in fondo la fattibilità e la sostenibilità di questa ipotesi come di altre che potranno essere avanzate. Se la proposta del percorso in due tempi sarà accettata, l’Assemblea straordinaria dovrà poi scegliere e decidere.

Una domanda di senso che non possiamo eludere 

Qualche considerazione di sintesi. Spero siano risultate chiare le ragioni che attribuiscono a tutti noi la responsabilità di una discussione che guardi in faccia i nodi decisivi per il futuro dei Cristiano sociali. E spero di aver delineato bene le tre opzioni sulle quali ho richiamato l’attenzione di ciascuno di voi, per decidere e per impegnare il nostro orizzonte.

È evidente che, anche in ragione delle scelte che faremo, dovrà essere affrontato e risolto il problema del nuovo gruppo dirigente e del suo assetto, a partire dalle cariche di maggiore responsabilità.

Spero che i nostri lavori siano guidati dalla consapevolezza che un soggetto culturale e politico ha senso solo se corrisponde ad interessi, aspettative e speranze che si esprimono nella parte della società che lo alimenta.

Non possiamo dunque eludere la domanda sul senso della nostra Associazione. La risposta, però, non può venire dalla nostra stanchezza né, al contrario, dalla nostra ostinazione a proseguire comunque il cammino.

Siamo dunque chiamati ad una verifica, ripartendo dal rifare memoria delle ragioni e del contesto che hanno motivato la nascita dei Cristiano sociali, dei compiti che allora ci siamo dati in quanto indicati e riconosciuti da un’area sociale e politica molto più vasta di quella che poi siamo riusciti ad organizzare.

Per vent’anni siamo stati spinti e guidati da un progetto che appariva quasi un’utopia: superare la frattura tra sinistra cristiana e sinistra laica causata da una democrazia incompiuta segnata dalla logica della Guerra Fredda e da una chiesa attardata su posizioni preconciliari. Quell’utopia si è realizzata. Ora va spesa per i fini di bene comune per i quali è stata fin dall’inizio pensata. In questa impresa noi siamo stati un piccolo grumo di lievito che ha contribuito a fermentare la pasta. In un modo o nell’altro, siamo e continueremo ad essere parte integrante di quella pasta: e comunque toccherà anche a noi agire perché abbia il buon sapore che abbiamo sperato.

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