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Per una riscossa della politica 

La mia relazione conclusiva al convegno “La radicalità cristiana interroga la sinistra” del 22 gennaio 2015

Quando abbiamo pensato questo incontro, eravamo mossi da due evidenze: in primo luogo le drammatiche condizioni in cui continua a versare la politica italiana, e le responsabilità che ne conseguono per la sinistra; in secondo luogo l’irruzione del magistero di Papa Francesco e il consenso che esso incontra anche in vaste aree del popolo della sinistra, nonostante uno scarso interesse dei suoi gruppi dirigenti.
C’è un forte scarto tra il carico di responsabilità che oggi è sulle spalle della sinistra italiana e le sue dinamiche decisamente autoreferenziali. Ci si scontra sulle politiche e sulle riforme ma non si pone mano alla questione di fondo: senza un “patto politico” fondato su un orizzonte  progettuale, su una cultura politica condivisa, la sinistra non riuscirà a restituire alla politica la sua dignità e a superare la sua grave crisi di legittimazione sociale. È a questo livello che si colloca la nostra iniziativa. E penso che al termine di questo incontro alcune cose siano più chiare.

La radicalità cristiana coincide con la fedeltà al Vangelo, che è radicale, per quello che qui interessa, nel suo chiamarci ad amare Dio e il prossimo. Storicamente, il movimento della radicalità evangelica è stato minoritario e marginale. E non solo nella Chiesa cattolica. Ora, l’elezione di Papa Bergoglio, fin dalla scelta del nome Francesco e dal suo primo affacciarsi in piazza San Pietro, sta riproponendo in modo inedito la questione, perché chiama i credenti a una impegnativa testimonianza quotidiana, a una radicalità che, per quanto gli è dato, lui esprime con la sua stessa vita. Ne abbiamo parlato nel seminario dello scorso anno, sottolineando la forza di un messaggio che denuncia la globalizzazione dell’indifferenza, le nuove schiavitù del denaro e le diseguaglianze, le quali agiscono anche come freno allo sviluppo.

Elogiato da molti a sinistra, tacciato di comunismo da moltissimi a destra, guardato con sospetto di integralismo da un certo laicismo, Papa Francesco ha spazzato via il vecchio confronto tra mediazione e presenza. Quando i cristiani si ancorano in modo credibile alla propria radice evangelica, è inevitabile che esprimano una politicità avanzata sul piano etico e sul piano sociale.

Questo nesso è espresso in modo speciale nella “teologia del popolo” che Papa Bergoglio interpreta alla sua maniera. Il vangelo dell’amore ha un suo fuoco dirimente: i poveri, i diseredati, gli scartati. Il cristiano, dunque, è chiamato ad assumere il loro punto di vista e a condividere la loro condizione; ed è spinto a operare, di conseguenza, per la loro promozione umana e sociale. Ecco perché condivisione, solidarietà, giustizia sociale sono non semplicemente valori-bandiera, ma valori discrimine che devono orientare l’azione della Chiesa e dei cristiani.

La stessa libertà – essenziale nella visione cristiana in quanto indispensabile alla stessa fede – non è semplice libertà da ogni dominio ingiusto, libertà personale di agire, ma è soprattutto libertà per testimoniare, incarnare quei valori nella vita quotidiana e nella storia. Papa Bergoglio non è un politico di sinistra. Però, è inevitabile che questa politicità entri in contraddizione con l’attuale “società dello scarto”, con “l’economia dello spreco”, con “l’economia che uccide”.

Per un cristiano la lotta alla povertà è un comandamento, un fondamento religioso. L’incontro con i poveri, gli emarginati, o perseguitati è un invito a scoprire la vera natura di Dio. L’attenzione o, se volete, l’opzione preferenziale per i poveri (Sollecitudo Rei Socialis di Giovanni Paolo II) non ė frutto di un progetto costruito a tavolino per cambiare la società, ma è un cardine della fede stessa.
“Andare verso i poveri significa andare verso la carne di Cristo”, così dice Papa Francesco. E si comprende in questo invito, l’essenzialità e la radicalità della fede cristiana. Essa porta ad un’altra opzione categorica, che ha a che fare con l’esigenza di respingere lo spirito del mondo, lo spirito mondano, la mondanità spirituale che allontana dallo spirito di Dio e dunque dalla persona umana che è fatta a immagine e somiglianza di Dio.

Le parole diventate scomode

Nella Esortazione Evangelii Gaudium, il primo vero documento programmatico di Papa Francesco, il punto è molto chiaro. Spesso nella lunga storia della Chiesa i poveri e la questione sociale sono stati considerati come appendici del cristianesimo. Papa Bergoglio, invece, rimette  i poveri nel cuore del cristianesimo, con una forza  profetica capace di sferzare in profondità il sistema economico, sociale e politico.

“La dignità di ogni persona umana e il bene comune – scrive Francesco- sono questioni che dovrebbero strutturare tutta la politica economica, ma, a volte, sembrano appendici aggiunte dall’esterno per completare un discorso politico senza prospettive né programmi di vero sviluppo integrale. Quante parole sono diventate scomode per questo sistema! Dà fastidio che si parli di etica, dà fastidio che si parli di solidarietà mondiale, dà fastidio che si parli di distribuzione dei beni, dà fastidio che si parli di difendere i posti di lavoro, dà fastidio che si parli della dignità dei deboli, dà fastidio che si parli di un Dio che esige un impegno per la giustizia… La crescita in equità esige qualcosa di più della crescita economica, benché la presupponga. Richiede decisioni, programmi, meccanismi e processi specificamente orientati a una migliore distribuzione delle entrate, alla creazione di opportunità di lavoro, a una promozione integrale dei poveri che superi il mero assistenzialismo”. “Richiede insomma – come hanno scritto Tornielli e Galeazzi nel loro bel libro su Francesco – uomini e donne che guardino al futuro e si impegnino non avendo come unico traguardo la prossima campagna elettorale. Uomini e donne che non considerino soltanto lo spread e gli indici di Borsa come indicatori dello stato di salute di un Paese, ma si interroghino se i giovani abbiano lavoro, futuro e speranza; se i bambini abbiano asili nido e scuole in grado di educarli introducendoli alla realtà; se le coppie abbiano la possibilità di acquistare una casa; se gli anziani abbiano un’assistenza degna; se chi ancora scommette sul futuro mettendo al mondo dei figli invece di essere penalizzato abbia un fisco minimamente giusto… Uomini e donne che riescano a far politica e a lavorare nelle istituzioni senza corrompersi ed essere corrotti, magari riuscendo a far rinascere un minimo di stima per quella “più alta forma di carità” che può essere la politica vissuta avendo sempre davanti agli occhi il bene comune, le esistenze concrete delle persone concrete, con una particolare attenzione e dedizione verso chi è in difficoltà, verso chi è rimasto indietro, verso chi è escluso e va incluso.”

I valori di cui abbiamo parlato fin qui e che sono evocati dalla testimonianza di Papa Francesco, sono anche valori fondativi della sinistra democratica. E sta qui il paradosso: sono proprio i valori che la sinistra, oggi, fa più fatica a praticare e perfino a riconoscere. Sono note le giustificazioni date a questa fatica: prima la cesura storica del 1989 e l’affermazione incontrastata del neoliberismo e delle trasformazioni da esso generate, poi la grave crisi recessiva di questi anni. C’è, però, anche dell’altro: la sinistra si è troppo presto arresa a un pragmatismo senza principi e alla presa culturale di un individualismo libertario all’apparenza inarrestabile. Ricordo, ad esempio, che nel congresso dei Democratici di Sinistra del 2000 a Torino, la parola eguaglianza neanche si poteva pronunciare. Nel testo della mozione conclusiva votata dall’assemblea, si giunse a un compromesso sul termine “uguali opportunità”, dopo una lunga e controversa discussione.

Nell’ambiente politico che conta, il problema è stato sostanzialmente rimosso. Basti pensare che dal beneficio fiscale dei famosi 80 euro sono stati esclusi i pensionati e le persone senza reddito, insomma, soggetti in condizioni reddituali assai più critiche dei beneficiari. Un destino analogo a quello toccato, ad esempio, all’idea di solidarietà. E i pochi che si azzardano a parlare di eguaglianza, si affrettano a precisare che non si riferiscono al vecchio egualitarismo. Dimenticando che quell’idea, pure esasperata, ha animato i conflitti del lavoro di una intera fase storica. Senza quell’idea-forza le società europee degli ultimi cento anni sarebbero più ingiuste e meno democratiche. Basti pensare a ciò che sta capitando in Grecia, in termini di riduzione drastica dei diritti sociali e dei servizi di welfare, per effetto delle politiche imposte dall’Unione europea e dal Fondo monetario internazionale in modo cieco e irresponsabile.

L’eguaglianza va interpretata in modo dinamico e realistico. Non per nulla il nostro maestro è stato Ermanno Gorrieri, che ne parlava con la volontà di rimediare all’astrattezza di un’uguaglianza formale, dichiarata nei principi e nelle leggi ma negata nei fatti. Negata perché non tiene conto delle diverse condizioni di partenza, dei diversi carichi di famiglia, delle diverse possibilità di accesso. Si è riproposta qui l’idea di una sinistra che per essere nuova sappia alimentarsi anche dei valori che vivono in una dimensione religiosa. Si tratta oggi per la sinistra di esprimere e rappresentare aspirazioni profonde del sentire religioso, perché occorre riconoscere il peso della fede religiosa nella vita delle persone e della comunità. Nessuno, però, può pretendere che la politica rifletta per intero le proprie ispirazioni e le proprie scelte. Solo l’integralismo pretende di imporre il suo credo, appunto, in modo integrale.

La laicità è il principio che regola e alimenta la convivenza libera e democratica in una società dove le differenze culturali e religiose sono diffuse e rappresentano un fattore determinante nella vita delle comunità. Essa è dialogo, confronto, continua ricerca di un’etica condivisa e, soprattutto, consapevolezza che la politica può rispondere solo in parte alle domande dell’uomo. A volte sono domande radicali, esigenti, quasi irriducibili, che impongono risposte nette, coraggiose, lungimiranti. La politica dispone di strumenti per delineare programmi e compiere scelte decisive. Ma non va considerata in termini assoluti. Questo è il senso del limite di cui parliamo spesso.

La politica tuttavia non è neppure soltanto amministrazione. Sicuramente non lo è per la sinistra. Certo, essa è anche l’arte del possibile, ma io credo debba tornare ad essere segnata, come lo è stata per molti di noi, anche dalla speranza di ciò che può apparire impossibile. La politica non può limitarsi a regolare gli equilibri degli interessi e delle corporazioni. In particolare la politica della sinistra. Essa non è un semaforo e non può perdere il rapporto con i mondi vitali della società: il lavoro, lo studio e la ricerca, i luoghi della cura, i quartieri popolari, le frontiere della legalità, il vasto campo del volontariato e dell’impegno civile e sociale, uno spazio non da occupare o da inquinare, ma un’autonomia da rispettare e da promuovere.

È questo il messaggio che ci mandano i giovani che disertano i circoli e le “primarie” del Pd e che, invece, frequentano centri culturali e campi scout. Ed è questo il segnale che ci inviano le tante persone che non sono andate a votare in Emilia Romagna e che si sentono mortificate da una sinistra che anziché esprimere significati, senso e passione, consegna schieramenti, contese elettorali a getto continuo, divisioni e lacerazioni senza fine. La politica della sinistra che vogliamo dovrebbe aprire vie nuove, offrire opportunità, promuovere esperienze, regalare emozioni, sollecitare partecipazione e responsabilità. La politica della sinistra dovrebbe riaprire i cantieri parlamentari sui diritti civili, sulla cittadinanza per i bambini stranieri, sulle politiche di promozione delle famiglie con figli, sul contrasto delle povertà e delle indigenze. Questa sinistra dovrebbe considerare la vita un valore da promuovere, in tutte le sue forme, la famiglia una risorsa da coltivare, i bambini un bene prezioso sul quale investire senza esitazione e senza risparmio, l’onestà una virtù civica irrinunciabile.

Riconquistare il riformismo

La responsabilità di una sinistra di governo, dunque, non si ferma di fronte all’esigenza di una lotta efficace all’esclusione sociale. Né essa può essere rinviata a un’ennesima, famigerata terza fase. La recessione che dura ormai da quasi otto anni, ha colpito duro, ha investito, impoverendole drasticamente, le condizioni di vita delle famiglie popolari e di una parte consistente del ceto medio. Gli effetti della disoccupazione, della cassa integrazione, della riduzione sensibile del reddito e del risparmio familiare si sono aggiunti a quelli della precarietà e della instabilità del lavoro che hanno coinvolto almeno due generazioni. C’è una prospettiva concreta per una buona parte dei lavoratori che oggi hanno 40/50 anni, di un reddito futuro da pensione sotto la soglia del minimo vitale; il 50% dei minori nel Mezzogiorno è in condizione di povertà; l’abbandono scolastico ha ripreso a crescere alla grande; le famiglie numerose fanno fatica a reggere i costi crescenti dei figli e dei servizi. Una sinistra che, rispetto a questi problemi, si distraesse, voltasse lo sguardo da un’altra parte, si ripiegasse sulle proprie magagne e su quelle della politica dei talk-show, perderebbe l’anima. Una sinistra che non offrisse una prospettiva credibile e che non alimentasse la fiducia nel futuro di fronte alla cruda realtà della disoccupazione, della povertà, della sofferenza sociale, sarebbe una sinistra priva di un tratto essenziale della propria identità.

Il riformismo è una parola impegnativa, che racchiude significati importanti, che evoca progetti e che può generare aspettative anche molto diverse tra loro. Dipende dagli aggettivi che si accostano al sostantivo, dai contenuti che esso esprime, dalle politiche che esso può ispirare e alimentare. Insomma, il riformismo può avere significati molto differenti. Se n’è parlato anche oggi. Il riformismo di destra, quello che si presenta da sempre sotto le varie aggettivazioni del neoliberismo, può essere senza progetto. O meglio, non ha altro progetto che quello di assecondare le tendenze del mercato, per servire gli interessi che in esse prevalgono. Il riformismo di sinistra non può essere senza progetto. E parlo qui di sinistra non in senso ideologico. La sinistra ha bisogno di progetto, perché sulle logiche e sulle dinamiche del mercato e della società ha una valutazione diversa dalla destra.

La sinistra sa che una democrazia degna di questo nome non può semplicemente assecondare la spontaneità dei mercati ma deve invece governarli secondo i grandi principi della nostra Costituzione: far avanzare livelli dignitosi di giustizia sociale e di eguaglianza; garantire i più deboli dalla prepotenza e dal sopruso dei più forti; riconoscere diritti e richiedere doveri a tutti, anche a chi proviene  da altri mondi, da altre culture o esprime orientamenti sessuali differenti; costruire nella società le condizioni di una convivenza davvero civile; promuovere la pace e la cooperazione tra i popoli e le nazioni del mondo.

Essere riformisti di sinistra, allora, vuol dire aver chiaro che questi obiettivi ambiziosi si possono raggiungere soltanto sapendo interpretare il processo storico e intervenendo per orientarlo e dirigerlo. Il riformismo non si traduce in ciò che in genere si definisce realismo politico. La sconfitta, o la nonvittoria, come molti hanno detto, alle elezioni del 2013, è in gran parte figlia di un eccesso di realismo politico, di un’aspettativa di successo fondata sull’idea che il fallimento della destra al governo avrebbe portato automaticamente la sinistra alla vittoria. I vincoli di un realismo dove tutto si tiene, riforme, equilibri e assetti determinati, vanno fatti saltare.

Penso che il realismo asfissiante sia il nemico da battere. Non c’è sinistra in grado di cambiare che non debba darsi una visione strategica condivisa e, quindi, una cultura politica in grado di trascendere la realtà in cui agisce. Se questa visione trascendente viene meno, è quasi inevitabile diventare incapaci di autonomia e restare prigionieri delle culture che alimentano lo statu quo. Il necessario realismo delle politiche deve essere orientato e sostenuto da una visione che impedisca loro di restare prigioniere dell’esistente. Certo, le riforme istituzionali e strutturali sono necessarie per cambiare il Paese e non solo per i mercati, per restare in Europa, per rilanciare la crescita. Il problema sorge, però, quando si passa ai contenuti, agli indirizzi e agli orizzonti che essi dischiudono.

Molte cose erano contenute nella relazione di Claudio Sardo che condivido interamente. Qui, voglio aggiungere ancora una riflessione, che forse può essere utile alla discussione e che va ben oltre l’occasione di questo incontro. Il riformismo non è sinonimo di moderatismo, tanto meno il riformismo che storicamente si è generato dall’esperienza del cristianesimo e del cattolicesimo sociale. Ma di questo abbiamo parlato molte altre volte. Forse, può essere utile ricordare a tutti noi che il riformismo della sinistra dovrebbe ispirare una politica forte, specialmente in questo tempo difficile della storia nazionale ed europea, nel quale si sente la necessità di rigenerare fiducia. Non bisogna avere paura. Servono coraggio e grande coesione, perché questa politica di innovazione e di cambiamento si scontrerà con resistenze corporative, compatibilità di bilancio, vincoli parlamentari e parametri europei, che già abbiamo conosciuto e di cui abbiamo misurato la durezza. Ma la politica forte di cui vogliamo parlare, non è quella che possa affermarsi soltanto per effetto di una leadership abile e carismatica, capace di comunicare, di suscitare attenzione e di mobilitare energie innovative. La sfida si vince al governo, non ci sono dubbi, e dunque servono autorevolezza e determinazione nelle scelte. Ma è determinante il rapporto che si instaura con la società e con il Paese, altrimenti rischiamo di ripetere lo stesso errore del periodo tra il 1996 e il 2001, quando la sinistra pensò che bastasse fare le scelte giuste dalle postazioni di governo e poi gli italiani avrebbero apprezzato. Sappiamo com’è andata a finire.

Al Pd serve un partito

A questo serve un partito, una forza nella quale possa riconoscersi lo sforzo di un dialogo permanente con gli elettori, con i territori, con le formazioni sociali davvero rappresentative, e la ricerca di nuovi equilibri tra forme politiche e forme civili della rappresentanza. Serve un soggetto capace di essere il baricentro, il vettore trainante non solo di una maggioranza, ma di una nuova fase politica, di un nuovo tempo della politica e della democrazia.

Per attraversare il pluralismo culturale, la molteplicità delle domande, la frammentazione della società, un leader, per quanto dotato e vincente, non basta. Serve un’associazione politica, in cui gli iscritti contino davvero qualcosa, capace di motivare e appassionare una partecipazione politica attiva e consapevole. Da questo punto di vista, tenuto conto di cosa è successo in Liguria e, prima ancora in Campania e da molte altre parti, una riflessione seria e magari autocritica sull’uso, diciamo un po’ disinvolto delle primarie, per la selezione delle candidature alle cariche istituzionali, andrebbe condotta con una qualche urgenza e severità. Il distacco profondo tra società e ceto politico non si è ridotto nel corso dell’attuale esperienza di governo. Vogliamo cominciare a parlarne? Le astensioni crescenti nei diversi passaggi elettorali, le fratture diffuse con settori significativi dell’elettorato democratico, la stessa caduta degli indici di gradimento dell’azione di governo, segnalata dai sondaggi, ci dicono che non possono bastare l’avvio contrastato delle riforme istituzionali e qualche buona notizia sul fronte delicato dello spread e dei mercati finanziari, per recuperare.

Ci vuole qualcosa di più sui fronti caldi della “questione sociale”, dove la crisi ha colpito duramente. E ci vuole qualcosa di più e di più significativo nel rapporto tra etica e politica, sulla qualità morale delle responsabilità pubbliche, sul contrasto della corruzione e dell’inquinamento mafioso della politica e delle istituzioni. La svolta non c’è ancora stata e un’inversione di tendenza, purtroppo, ancora non si intravvede in modo deciso e definito. Una politica più forte, un riformismo più radicale, una sinistra più coraggiosa e coerente. Di questo stiamo parlando. C’è un tessuto morale da ricostruire nel Paese, una nuova etica pubblica da promuovere e diffondere nella vita delle persone e delle istituzioni, una più forte cultura civica da alimentare. La corruzione non si batte soltanto facendo leva sul codice penale e sull’aggravamento delle pene. Servono la mobilitazione delle coscienze, una responsabilità nuova della parte più sensibile e onesta della società, un impegno educativo e morale senza precedenti delle culture ispirate al bene comune. Anche per questo serve una politica più forte e più credibile.

Da questo punto di vista, il clima che c’è nel Pd non va bene. Il partito è diviso, e i conflitti non sempre sono fondati su ragioni politiche sostenibili e ragionevoli. Il segretario, che è anche presidente del Consiglio, farebbe bene a cercare con più convinzione le vie del dialogo e della coesione. È insopportabile che il confronto interno venga descritto secondo lo schema di chi “spinge” e di chi “frena”, degli “amici” e dei “nemici”, dei “parassiti” o dei “traditori”. Gli insulti non sono mai indicatori di un dibattito politico serio e responsabile, e una torsione personalistica della natura del Pd rischierebbe di alimentare una spirale dissolutoria difficilmente arrestabile. Bisogna fermarla prima che sia troppo tardi, prima che un nuovo spirito autodistruttivo prenda la mano ai gruppi dirigenti. L’elezione del nuovo Presidente della Repubblica può essere una grande opportunità per invertire la rotta e ricostruire la consapevolezza di un impegno comune. È questa una prova decisiva che richiede dialogo, responsabilità e coesione. E se la prova sarà superata positivamente, ci saranno conseguenze positive sull’intera politica italiana.

Serve un nuovo patto politico nel Pd che, mentre assicuri al segretario e alla maggioranza che lo sostiene il pieno diritto di condurre l’azione politica e di governo nel senso indicato dal congresso, garantisca alla minoranza la cittadinanza politica e parlamentare delle proprie posizioni. Certo, un partito politico non è un campo di forze, dove ognuno rappresenta la sua quota e poi si vede. C’è l’esigenza della sintesi e della decisione. Si discute, ci si confronta ma poi si assume una linea di condotta. E se non si tratta di questioni che investono la coscienza dei singoli, o temi di rilevanza costituzionale, si vota secondo gli indirizzi indicati dagli organismi dirigenti, anche quando ciascuno, per la propria parte, pensa di avere ragione.

Infine, ancora qualche parola sulle vicende di Parigi. L’eccidio che ha prima sconvolto e poi mobilitato i francesi e la grande opinione pubblica democratica dell’Europa e del mondo, ha riproposto una questione di fondo: una società plurale deve essere necessariamente laica, non solo per principio ma a maggior ragione perché può convivere solo attorno a un patto fondato su valori condivisi. In una società laica nessuna libertà può essere irresponsabile verso il bene comune: non la libertà religiosa, e neppure la libertà di espressione. Vale anche per la satira.

Nelle giornate di Parigi il tema della libertà è tornato prepotentemente al centro del dibattito pubblico e della mobilitazione popolare. È come se fosse stato riscoperto il suo valore universale, la sua potenziale capacità di includere, ma anche di escludere e di offendere. Siamo entrati in un terreno minato, in cui sono in gioco i principi di libertà e laicità, che hanno mobilitato le coscienze.
La laicità è un concetto estraneo all’Islam e, per altro, esistono in Occidente diversi modi di essere laici. E molti laici non hanno nascosto il loro dissenso per il contenuto di alcune delle vignette su tanto si è discusso. La laicità è un criterio di convivenza civile che certo rivendica il diritto e la libertà di criticare le religioni, anche in quanto tali. Ma il principio di libertà non può essere disgiunto da quello di responsabilità, e il suo concreto esercizio non può spingersi oltre il limite del rispetto e della garanzia della libertà altrui. Offendere o insultare non è mai una buona cosa, e non si può invocare il diritto di farlo in ragione di un malinteso principio di libertà.

C’è una tendenza, ampiamente espressa anche in queste settimane, a dare per acquisita l’equazione laico = ateo. Questo tipo di laicismo è esso stesso un’ideologia integralista. In una convivenza plurale e democratica, ogni identità, ogni cultura, ogni fede religiosa debbono necessariamente proporsi come aperte al reciproco riconoscimento, alla tolleranza, al dialogo. Non si tratta di rinunciare alla verità di cui ciascuno pensa di essere portatore, ma di essere disponibili a metterla a verifica nel dialogo con quelle degli altri.

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